Corriere del Mezzogiorno (Campania)
SOVRANITÀ LIMITATA
Il blocco dell’attività produttiva di questi mesi avrà conseguenze macroeconomiche molto rilevanti per il nostro Paese. Tuttavia di ciò non si discute, se non marginalmente, nel dibattito pubblico e parlamentare. La sottoscrizione dell’Atto Unico nel 1986 ha sancito la definitiva apertura al mercato unico europeo per merci, servizi e capitali e la sovranità finanziaria del potere pubblico italiano è stata trasferita.
Ma dove e a chi è stata trasferita la nostra sovranità finanziaria?
In un mercato del tutto aperto verso l’esterno, lo Stato ha rinunciato alla sua facoltà di regolare l’economia attraverso il tasso di cambio e il tasso di sconto, mettendosi in una posizione di sostanziale parità, anche come debitore, con tutti gli altri operatori, pubblici e privati, dei mercati finanziari internazionali.
In questo quadro, lo Stato ha rinunciato di fatto anche alla sua potestà impositiva. La leva fiscale può essere utilizzata ma, in un sistema di libero mercato pieno, i fattori produttivi rimangono all’interno solo finché lo trovano conveniente, per cui la cessione della sovranità monetaria ha ridotto di molto anche la discrezionalità nella politica di bilancio.
Naturalmente è una vicenda molto complessa, ma essa riguarda, in ultima analisi, la sovranità come valore di fondo di ogni sistema costituzionale nazionale. L’articolo 11 della Costituzione, in base al quale abbiamo aderito all’Unione europea, dispone che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Ma le condizioni di fatto nelle quali l’Italia si è presentata in Europa erano molto diverse da quelle dei Paesi più forti, sul piano geografico, sociale, culturale, giuridico e soprattutto economico e macroeconomico.
In queste condizioni il trasferimento di sovranità, sul piano sostanziale, è andato in direzione non tanto di istituzioni comuni, governate da tutti i contraenti su base paritaria, ma degli Stati più forti e più solidi, capaci con le loro decisioni di condizionare quelle dei Paesi più deboli come il nostro. La nostra discrezionalità politica risulta alla fine fortemente ridimensionata dalla subordinazione al merito di credito che ci riconoscono le istituzioni finanziarie internazionali, non molto diversamente da una grande azienda privata.
Se a ciò si aggiunge il vincolo giuridico, che abbiamo sottoscritto, a un tendenziale pareggio di bilancio, è molto evidente come siamo dentro una dinamica di stagnazione molto difficile da invertire. Di fatto non possiamo investire quanto sarebbe necessario per stimolare l’economia e, come in una spirale, il rapporto tra debito e Pil è destinato a deteriorarsi progressivamente. Negli ultimi dieci anni siamo passati dal 100% al oltre il 130%. E tutto questo prima della crisi epidemica che stiamo attraversando.
Per uscire da questa dinamica perversa sarebbe stato necessario che l’Italia si rimettesse in condizioni di parità con gli Stati più forti, abbattendo, velocemente e con decisione, il proprio debito pubblico fino a livelli comparabili con quelli dei Paesi più solidi. Si sarebbe, così, recuperata la sovranità per poter orientare le politiche monetarie dell’Unione verso equilibri più favorevoli alla nostra economia e più aderenti al disegno costituzionale, che mette al centro il lavoro e non solo la stabilità dei prezzi.
Purtroppo, da venti anni a questa parte, il nodo del debito pubblico non è stato sciolto e, oggi, la crisi che stiamo attraversando, fatalmente, non può che accelerare il processo. Il rapporto debito/Pil arriverà a fine anno oltre il 150% ed è destinato a peggiorare se, come sembra, i finanziamenti europei non saranno investimenti a carico del bilancio comune, ma andranno contabilizzati nei debiti pubblici nazionali. Avremo, probabilmente, un paio di anni di moratoria ma, una volta rispristinati i parametri del patto di stabilità oggi sospesi, i nostri conti pubblici risulteranno non sostenibili, con un probabile avvitamento che porterà il tasso di interesse che paghiamo sul debito a un livello al quale non potremo far fronte.
È uno scenario drammaticamente realistico purtroppo, del quale, però, non si discute apertamente nemmeno nelle aule parlamentari. Nel 2022, se non prima, l’attuale inerzia ci porterà in una condizione dalla quale, molto probabilmente, non potremo uscire se non con aiuti esterni, necessariamente condizionati e forse fortemente condizionati, e di questo si dovrebbe discutere in modo chiaro e aperto, spiegando all’opinione pubblica come stanno le cose e quali sono le opzioni realisticamente perseguibili per provare a evitare il peggio.