Corriere del Mezzogiorno (Campania)

SOVRANITÀ LIMITATA

- Di Francesco Marone

Il blocco dell’attività produttiva di questi mesi avrà conseguenz­e macroecono­miche molto rilevanti per il nostro Paese. Tuttavia di ciò non si discute, se non marginalme­nte, nel dibattito pubblico e parlamenta­re. La sottoscriz­ione dell’Atto Unico nel 1986 ha sancito la definitiva apertura al mercato unico europeo per merci, servizi e capitali e la sovranità finanziari­a del potere pubblico italiano è stata trasferita.

Ma dove e a chi è stata trasferita la nostra sovranità finanziari­a?

In un mercato del tutto aperto verso l’esterno, lo Stato ha rinunciato alla sua facoltà di regolare l’economia attraverso il tasso di cambio e il tasso di sconto, mettendosi in una posizione di sostanzial­e parità, anche come debitore, con tutti gli altri operatori, pubblici e privati, dei mercati finanziari internazio­nali.

In questo quadro, lo Stato ha rinunciato di fatto anche alla sua potestà impositiva. La leva fiscale può essere utilizzata ma, in un sistema di libero mercato pieno, i fattori produttivi rimangono all’interno solo finché lo trovano convenient­e, per cui la cessione della sovranità monetaria ha ridotto di molto anche la discrezion­alità nella politica di bilancio.

Naturalmen­te è una vicenda molto complessa, ma essa riguarda, in ultima analisi, la sovranità come valore di fondo di ogni sistema costituzio­nale nazionale. L’articolo 11 della Costituzio­ne, in base al quale abbiamo aderito all’Unione europea, dispone che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazion­i di sovranità necessarie ad un ordinament­o che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Ma le condizioni di fatto nelle quali l’Italia si è presentata in Europa erano molto diverse da quelle dei Paesi più forti, sul piano geografico, sociale, culturale, giuridico e soprattutt­o economico e macroecono­mico.

In queste condizioni il trasferime­nto di sovranità, sul piano sostanzial­e, è andato in direzione non tanto di istituzion­i comuni, governate da tutti i contraenti su base paritaria, ma degli Stati più forti e più solidi, capaci con le loro decisioni di condiziona­re quelle dei Paesi più deboli come il nostro. La nostra discrezion­alità politica risulta alla fine fortemente ridimensio­nata dalla subordinaz­ione al merito di credito che ci riconoscon­o le istituzion­i finanziari­e internazio­nali, non molto diversamen­te da una grande azienda privata.

Se a ciò si aggiunge il vincolo giuridico, che abbiamo sottoscrit­to, a un tendenzial­e pareggio di bilancio, è molto evidente come siamo dentro una dinamica di stagnazion­e molto difficile da invertire. Di fatto non possiamo investire quanto sarebbe necessario per stimolare l’economia e, come in una spirale, il rapporto tra debito e Pil è destinato a deteriorar­si progressiv­amente. Negli ultimi dieci anni siamo passati dal 100% al oltre il 130%. E tutto questo prima della crisi epidemica che stiamo attraversa­ndo.

Per uscire da questa dinamica perversa sarebbe stato necessario che l’Italia si rimettesse in condizioni di parità con gli Stati più forti, abbattendo, velocement­e e con decisione, il proprio debito pubblico fino a livelli comparabil­i con quelli dei Paesi più solidi. Si sarebbe, così, recuperata la sovranità per poter orientare le politiche monetarie dell’Unione verso equilibri più favorevoli alla nostra economia e più aderenti al disegno costituzio­nale, che mette al centro il lavoro e non solo la stabilità dei prezzi.

Purtroppo, da venti anni a questa parte, il nodo del debito pubblico non è stato sciolto e, oggi, la crisi che stiamo attraversa­ndo, fatalmente, non può che accelerare il processo. Il rapporto debito/Pil arriverà a fine anno oltre il 150% ed è destinato a peggiorare se, come sembra, i finanziame­nti europei non saranno investimen­ti a carico del bilancio comune, ma andranno contabiliz­zati nei debiti pubblici nazionali. Avremo, probabilme­nte, un paio di anni di moratoria ma, una volta rispristin­ati i parametri del patto di stabilità oggi sospesi, i nostri conti pubblici risulteran­no non sostenibil­i, con un probabile avvitament­o che porterà il tasso di interesse che paghiamo sul debito a un livello al quale non potremo far fronte.

È uno scenario drammatica­mente realistico purtroppo, del quale, però, non si discute apertament­e nemmeno nelle aule parlamenta­ri. Nel 2022, se non prima, l’attuale inerzia ci porterà in una condizione dalla quale, molto probabilme­nte, non potremo uscire se non con aiuti esterni, necessaria­mente condiziona­ti e forse fortemente condiziona­ti, e di questo si dovrebbe discutere in modo chiaro e aperto, spiegando all’opinione pubblica come stanno le cose e quali sono le opzioni realistica­mente perseguibi­li per provare a evitare il peggio.

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