Corriere del Mezzogiorno (Campania)
SI DEVE COMINCIARE NON RI-COMINCIARE
Se ritornano movide senza regole e parcheggiatori abusivi, gas di scarico e liquami, stese e camorra, e l’immondizia di ogni genere trabocca dai cassonetti e ripopola i marciapiedi, non abbiamo imparato nulla dalla sospensione del mondo. Una città è una città se è fatta di spazi in divenire e tempi condivisi in cui le persone interagiscono. Di regole e di amministrazione. Di servizi efficienti e autobus e metro funzionanti. Di parchi e di panchine. Ma è fatta anche di cittadini, di comportamenti individuali e collettivi, e va anche meritata. Proviamo a vedere la ripresa della vita dopo la pandemia non solo recriminando ciò che nel mondo di prima ci è mancato, ma anche con lo sguardo degli abitanti. Abbiamo abitato la paura, ora cominciamo a ri-abitare la città, la nostra.
E di mascherine ne stanno vendendo di tutti i colori, griffate e anche chiattille, identitarie, a pendant con la mise e talvolta indubbiamente imbarazzanti, capaci di parlare di noi quando dovremmo restare a bocca chiusa.
Per stabilire un po’ d’ordine in questa farsa cavaiola ci voleva un protagonista assoluto, un vaccino confessato e comunicato come solo può essere san Gennaro. Poteva quindi mai mancare una mascherina con l’effigie dell’ampolla del sangue miracoloso? No. A realizzarla ci ha pensato Stefano Floro Flores, editore e libraio a vico della Quercia (dalle parti del Gesù Nuovo) che ne ha fatto realizzare dalla Albagraf un bel mucchio. Per lo più le regala ai clienti più affezionati, collezionisti
incalliti di libri antichi, ma nel caso le vende pure a prezzo calmierato. «San Gennà miettece ‘a mana toja» è scritto e il sangue riprodotto è chiaramente allo stato liquido. Altrimenti qualche dubbio sulla sua efficacia sarebbe stato legittimo.
Folklore, certo. Kitsch, pure. Ma il kitsch come ha insegnato la buonanima di Gillo Dorfles è una categoria del pop e quindi, scendendo per li rami, dell’arte. E poi il principale patrono di Napoli da tempo è un’icona pop con tutti i crismi e le patenti necessarie. Non lo è da ieri, da quando è replicato in mille e mille statuette di terracotta, di metallo, di plastica cinese, in magliette, ombrelli, spettacolari murales, magneti da frigorifero, portachiavi, cover per smartphone, immaginette con i colori azzurri del Napoli, per tacere delle centinaia e centinaia di edicole votive che ancora resistono e crescono agli angoli dei vicoli della città. San Gennaro è stata un’icona, nel senso letterale, già dal secolo d’oro del barocco quando intraprese senza rivali la marcia trionfale a protettore instancabile della città in millenaria lotta contro il Vesuvio
(sangue contro lava), contro peste e colera, terremoti e guerre. Sempre e solo lui. Agli altri è toccato il ruolo di gregari. Testa bassa e pedalare.
Quest’anno, il 2 maggio scorso, i devoti, credenti, laici e scettici si sono dovuti rassegnare a un miracolo in sordina. Niente processione lungo Spaccanapoli, niente pubblico assembrato sotto la volta di Santa Chiara. Solo una cerimonia per pochi intimi raccolti in preghiera nel Duomo. San Gennaro il miracolo l’ha fatto. Così anche chi non ci crede, in cuor suo, ha tirato un sospiro di sollievo. Il solo pensiero che il sangue nelle ampolle fosse rimasto sdegnosamente solido l’avrebbe tormentato come la risposta balbettante e controversa di un virologo da talk show.
Adesso è sceso in campo direttamente. Gocce di sangue contro goccioline virali. Tra tanti miracolati e aspiranti artefici di prodigi san Gennaro è il vero esperto che come l’Athaualpa di Paolo Conte può ben dire «descansate niño che continuo io».