Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Anche con le mascherine ci affidiamo a San Gennaro
Con le mascherine anti-Covid ne abbiamo viste di tutti i colori. Sia per l’annaspante approvvigionamento, sia per il balletto del «leva e metti», del dove, come, quando e perché.
La lunga quarantena ce l’ha restituita vuota e nuova, come se stesse lì ad aspettarci, con un cielo più limpido e i delfini che guizzano nelle acque, quasi ad insegnarci che la vita si rinnova a dispetto di ogni pipistrello col suo veleno virale, che i vivi sono più dei morti, che quelli che finalmente rincontriamo hanno facce nuove sotto la mascherina.
La pandemia ha insegnato ai napoletani a fare la fila. Non torneremo all’arrembaggio sgomitando nei mercatini e davanti al bancone di un bar. Ci ha inculcato il rispetto delle regole e a essere più virtuosi perfino dei milanesi. Non torneremo a gettare la carta a terra, né a parcheggiare in tripla fila o a girare con lo scooter sui marciapiedi. Ogni padrone raccoglierà la cacca del cane e nessuno passerà più col rosso e sfreccerà nei vicoli senza casco. Ci ha insegnato a lavare le mani, la pulizia meticolosa col gel e la candeggina, il valore dell’ambiente. Distingueremo l’umido dall’indifferenziata e nessuno abbandonerà più un materasso o un bidet lesionato ai bordi della strada.
Il blocco che ha abbassato ogni saracinesca, ci ha fatto sentire il vuoto dell’arte, degli spettacoli, dei teatri chiusi e nella strada. Soprattutto ha rotto l’incantesimo di un’economia fatta di mordi e fuggi, di aria impestata di fritture, di bed & breakfast e di lavoretti improvvisati, svelando l’esercito invisibile di lavoranti senza diritti e senza tutele.
Non si può ricominciare, bisogna invece cominciare. Il nero deve diventare chiaro, il sommerso deve emergere per farsi superficie su cui poggiare
i mattoni di un nuovo sviluppo. Diversamente vorrebbe dire che questo tempo maledettamente sospeso è passato così, solo per allontanare il contagio, senza lasciarci una consegna, neppure una timida traccia dentro ciascuno per mettersi in discussione.
Il day after ci consegna una città per cominciare, non la condanna all’ eterno ritorno di esistenze calcificate nelle abitudini e nei copioni di comportamenti che hanno fatto dei suoi abitanti il disco rotto di un falso folklore. Chi dice che l’essenza di Napoli, di quell’unicità che i turisti ci invidiano, è proprio questo popolo chiassoso e ammuinatore, è lo spazio anomico di chi se lo prende, il regno postborbonico del caos che legittima tanto la creatività quanto ogni vandalismo, non ama Napoli. È dalla parte di chi in Europa tiene stretti i cordoni delle proprie borse e poi vorrà calare qui solo per un grand tour.
Nel day after è facile lasciarsi assalire dalla stanchezza e dall’illusione di trovarsi al termine di un viaggio, quando invece si è soltanto all’inizio. Non servono archistar per riprogettare gli arredi urbani, le periferie, le piazze e immaginarne nuove sopraelevate e fiorite. Basterebbe solo riappropriarsi di un sentimento perduto da secoli: quello del bene comune.
Se Calvino avesse incluso tra «le città invisibili» anche la Napoli all’uscita della pandemia, l’avrebbe chiamata probabilmente Napolia, per la molteplicità delle novità e delle energie nuove di cui è capace, con i suoi abitanti che calano panieri di solidarietà, tutelano i vecchi e la storia, tendono fili doppi tra gli spigoli delle case per stendere in comune panni colorati. Di Napolia al Gran Kublai Marco Polo avrebbe svelato «la filigrana di un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti».