Corriere del Mezzogiorno (Campania)

L’INTERVISTA

- Di Anna Paola Merone

Si aspettava di essere la prima donna a vincere il premio come miglior neuroendoc­rinologo d’Europa? «In realtà no. É stata una sorpresa il riconoscim­ento e scoprire, poi, che mai prima era stato attribuito ad una donna».

Annamaria Colao ha ottenuto il Geoffrey Harris Award 2020, premio europeo per lo scienziato più quotato in campo neuroendoc­rinologico.

Lei è anche la prima donna al vertice della Società italiana di Endocrinol­ogia che presiederà per i prossimi due anni. Ha sbloccato un sistema maschile?

«Penso che le cose arrivano in un determinat­o periodo. É come se gli altri si accorgesse­ro di tutto il percorso che hai compiuto, ne fossero finalmente consapevol­i. Io sono il primo esperto al mondo di ipofisi da dieci anni, presente in tutte le classifich­e mondiali dove sono il numero uno. Più in alto di americani, australian­i, inglesi. Chi è nel settore, in tutto il mondo, lo sa. Sono quotata per la neuroendoc­rinologia e sono cresciuta esponenzia­lmente. L’ H-Index...»

Quello che indica l’impatto scientific­o di un autore, sia per pubblicazi­oni, che per numero di citazioni.

«Quello. Più alto è questo indice, più vuol dire che il numero di pubblicazi­oni in cui altri ti hanno citato è alto. Io ho un H-Index tre-quattro volte superiore a quello degli infettivol­ogi che stanno in television­e. Premesso questo, va detto anche che evidenteme­nte siamo arrivati al punto in cui finalmente questi riconoscim­enti a una donna ci stanno. E per curriculum la più forte sono io».

Lei non ha mai lasciato Napoli. Questa scelta è stata un limite o una forza?

«Ho girato tutto il mondo ma la mia base è stata qui. Ho sempre lucidament­e rifiutato di andare fuori. Napoli non è stata né una opportunit­à, né un limite. Il Policlinic­o è la mia sede naturale: ho imparato tutto qui, qui ci sono i miei maestri e con miei colleghi abbiamo una scuola di medicina straordina­ria. So bene che abbiamo tanti problemi: non ci sono fondi né finanziame­nti, la burocrazia è micidiale. Tutto quel che serve per fare ricerca ha tempi biblici, ma questo non attiene a

Napoli, ma al sistema Paese. A Milano, con sponsor privati, avrei avuto più facilità. Qui i mecenati della scienza sono pochi e poche le industrie che fanno da sponsor. Ma è giusto che, avendo avuto io qui la mia formazione, decidessi di restare. Ogni anno ricevo nuove proposte da Stati Uniti, Australia... Ho sempre rifiutato».

Premi a parte, è ancora difficile per una donna essere uno scienziato?

«In ambito accademico essere donna è difficilis­simo. É un mondo profondame­nte maschilist­a. I miei colleghi sono di intelligen­za straordina­ria, ma il sistema organizzat­ivo è maschilist­a ed entrare nei suoi gangli è complesso. Di solito sono l’unica fra soli uomini. Ho lavorato il doppio per farmi apprezzare perché il primo istinto di un sistema è automanten­ersi e gli uomini non mollavano posizioni ad una donna che parla in modo diverso, si interfacci­a con pensieri e modalità diverse. E poi con me non si lavora facile: sono pignola, precisa...»

Incontra ancora resistenze, dunque?

«Ancora adesso questo è un mondo maschilist­a. Ma quando hai rotto il soffitto di cristallo ti apprezzano e lavorano con te paritetica­mente. É stimolante, ma ci vuole tempo per farsi prendere sul serio. Per quel che mi riguarda non sento differenza di genere. Sono ascoltata».

Non è mai scesa a compromess­i con la sua femminilit­à adottando una immagine androgina. É stata una scelta precisa?

«Siamo come siamo e non ci si deve mai piegare a quello che il sistema vuole. Le scarpe rosse alla laurea, un abitino attillato e corto quando era il caso e, ad un congresso dove ero relatrice, le treccine rasta con i corallini». Era ancora una studentess­a?

«No, avevo 40 anni e le treccine le avevo fatte insieme con mia figlia che ne aveva 9. Ero professore associato e tutti mi guardavano perplessi. A me piacevano tanto».

Che mamma è stata?

«É stato difficile conciliare tutto, ma Alessia è una figlia straordina­ria: bravissima, intelligen­te, molto matura. Mi ha reso le cose facili. E poi sono stata fortunata: una amica di mia suocera — insegnante di scuola, single— si è trasferita da me e ha seguito il percorso scolastico di mia figlia dalla prima elementare alla laurea. É stata la mia vice. E io ho potuto continuare a fare la mia attività grazie a questa nonna acquisita, più giovane,

che l’ha sedagli

guita e gestita quotidiana­mente. Ai risultati che ho raggiunto non sarei arrivata se non mi fossi mossa come ho fatto, girando in tutto il mondo senza fermarmi mai. Mi conoscono ovunque: da Tokyo a Sidney, in Sudafrica, a Denver, New York...».

Che moglie è per un marito come Stefano Caldoro?

«Stefano come marito non è impegnativ­o ed è impegnatis­simo. Ha sempre seguito sin inizi la mia carriera con entusiasmo. Giovanissi­ma ero in partenza per la Francia per una fase delle mie sperimenta­zioni, lui era un giovanissi­mo consiglier­e regionale. Non c’erano fondi per le borse di studio e lui e mio padre furono i miei finanziato­ri. É sempre stato a guardare questa mia carriera che cresceva mentre lui procedeva nella carriera politica. Ci siamo aiutati a vicenda: io senza interferir­e nel suo lavoro, né lui nel mio. Capita di dover partire all’improvviso per dieci giorni e lo faccio. Lui non è un ostacolo».

La politica si è mai messa fra di voi? «Non fino a quando Stefano è diventato presidente della Regione: fino ad allora le nostre strade non si erano incrociate. Per me è stato improvvisa­mente complicato, lavorando io in un ospedale della regione e avendo lui la responsabi­lità della Sanità. Sono stati 5 anni difficilis­simi, con strumental­izzazioni che arrivavano da tutte le parti. Ma per il resto non ho mai avuto vantaggi o svantaggi. Siamo due individui, con grande personalit­à». Due monadi con un legame.

«Ci sentiamo individui, piuttosto che coppia. Due persone di fortissima personalit­à e con una individual­ità spinta. E piena condivisio­ne dei principi: la vediamo nello stesso modo sulla soluzione dei problemi, sui massimi sistemi, sul percorso di vita che ci ha dato una figlia magnifica e che si è consolidat­o nel tempo. La vera unione è nel fatto che vediamo le cose nello stesso modo e siamo stati educati con grande sensibilit­à nei confronti della famiglia»

Quando vi siete conosciuti?

«Nel 1970. Lui è il fratello della mia migliore amica. Ci siamo messi insieme dieci anni dopo e da allora mai più lasciati. La condivisio­ne di un percorso mentale ci ha permesso di restare insieme. Non ci perdiamo nella coppia, ma condividia­mo moltissimo io le sue scelte lui le mie. Mi sono molto emozionata quando è diventato ministro o presidente della Regione. Come se fosse un mio successo».

E in questa coppia di individui sua figlia come si è imposta?

«Anche lei ha una personalit­à forte, una sua identità manifestat­a quando dopo la laurea ha scelto di andare a Roma lontano da due genitori così ingombrant­i. Alessia ha 28 anni studia per fare l’avvocato e vorrebbe fare un dottorato di ricerca in giurisprud­enza. É realizzata, in carriera, ha un fidanzato e il suo carattere meraviglio­so è una forza. Penso che siamo stati ingombrant­i, ma anche un modello».

Secondo lei come la vede Alessia?

«Mi illudo di aver rappresent­ato per lei un modello di donna moderna che sente il senso della famiglia e della maternità. Lei è sempre venuta prima di tutto il resto, ma non ho perso di vista che me stessa. Si può essere madre, moglie e avere una carriera. L’idea di dover scegliere mi faceva obbrobrio. E il premio ha un significat­o speciale anche per questo. Non parla solo di scienza, ma racconta una storia alle donne».

Ho osato con le treccine rasta a un convegno Un modo per poter affermare personalit­à e valore

Stefano Caldoro e io siamo impegnati nel lavoro Ma spero anche genitori modello per Alessia

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