Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Terremoto
Poi proseguite da ragazzo sulle spiaggia della Corderia, a Pozzano, e da giovanotto in Villa Comunale e alle fonti dell’Acqua della Madonna, in cui inzuppavamo per passare le sere i celebri biscotti di Castellammare.
Ma, detto della mia personale commozione, mi interessa il tema che pone Cosenza, utilizzando il caso di Castellammare, di questa «piccola città» che già stimolò la riflessione del sociologo Ferrarotti; perché é paradigmatico di un destino più grande e collettivo, esempio di distruzione di un patrimonio produttivo, paesaggistico e civile, incarnazione di un degrado che assomiglia tanto a quello di tante nostre città. Non a caso l’hanno chiamata la «piccola Napoli».
Il momento che Cosenza sceglie come spartiacque tra progresso e sottosviluppo è la discussione che a metà degli anni Cinquanta vide contrapporsi le forze moderate, politiche e sociali, della città, che decisero di puntare sulla «vocazione turistica» di questa area cui la Provvidenza ha regalato mare, monti e ventotto sorgenti di acqua minerale: e, dall’altro lato, la parte progressista della cultura cittadina, spalleggiata dalla sinistra «operaista», che puntava invece sulla «vocazione industriale» di una comunità che aveva storici cantieri navali e altre grandi industrie meccaniche. Il progetto di questi settori immaginava una bonifica e riconversione del Centro Antico, proprio intorno alle Vecchie Terme; i «modernisti» con i Gava in testa puntarono invece sulla duplicazione delle Terme con la costruzione di un nuovo stabilimento sulla collina del Solaro.
Più di messo secolo dopo, possiamo dire che entrambe le vocazioni sono fallite. Le ex nuove terme sono un ammasso di macerie abbandonate, il cantiere navale resiste ancora in mezzo al deserto industriale, ma a fatica e con sempre meno operai. Castellammare non è diventata né un centro turistico né un centro produttivo, eppure avrebbe potuto essere entrambe le cose.
Ma se vogliamo raccontare la storia fino in fondo, dobbiamo fare un salto più avanti nel tempo, fino al 1980. Perché fu il terremoto il vero spartiacque tra le due storie di Castellammare: quella di una città dotata di una sua nobile identità sociale e culturale, fatta di classe operaia e borghesia delle professioni, e quel coacervo informe di rendite, automobili e cemento che è diventata, un impasto di lumpen-proletariato e di rendita. E ciò che ne decise il destino fu il modo in cui i ceti politici dirigenti, anche allora facenti capo alla Dc, orientarono la ricostruzione dopo il sisma: nessun progetto comune, ispirato all’interesse pubblico, che potesse definirsi un investimento; ma una pioggia di finanziamenti a privati, contributi, elargizioni, che stimolarono l’appetito di tutti gli interessi privati più chiusi e gretti e molto spesso malavitosi. La mutazione della camorra locale, dalla fase folklorica di Pupetta Maresca a quella «organizzata» di Raffaele Cutolo, avvenne proprio in quegli anni intorno al flusso di denaro pubblico, cambiando per sempre l’antropologia e la cultura materiale di tante città del Napoletano.
Da molti punti di vista la crisi del Covid-19 può essere assimilata al terremoto del 1980. È una catastrofe come quella (forse anche peggiore, perché non è durata un giorno ma mesi). E allo stesso modo di allora, anche oggi la risposta dei poteri pubblici sembra orientarsi verso una distribuzione a pioggia di soldi, per soddisfare e placare ogni categoria, una specie di mega-risarcimento di massa. Senza però un’idea di quello che con tanti soldi si potrebbe fare non per tanti, ma per tutti. Castellammare, al pari di altre medie città della nostra regione, ha un bisogno disperato di fare un salto di civiltà. Ha bisogno di infrastrutture immateriali e materiali. Ha bisogno di una nuova generazione ad alta tecnologia. Ha bisogno di istruzione e formazione. Ma quando alla fine avremo distribuito tutti i soldi che siamo prendendo a debito in bonus monopattino, baby sitter e bed&breakfast, mettendo in moto una piccola industria della certificazione che possiamo immaginare di quanti inganni e frodi si avvarrà, che cosa resterà per ciò che più serve? Per le scuole, per le strade, per i trasporti pubblici, per la salute, per il mare, per l’ambiente, per il turismo, per le connessioni ad alta velocità?
Questo, come avvenne col terremoto del 1980, è un momento in cui si decide della sorte delle nostre terre per il prossimo secolo. L’allocazione delle risorse pubbliche sarà massiccia. Se sarà corporativa, clientelare e frammentata come allora, tra cinquant’anni ricorderemo questi giorni come un nuovo gradino, una nuova caduta verso la barbarie.