Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Terremoto

- di Antonio Polito

Poi proseguite da ragazzo sulle spiaggia della Corderia, a Pozzano, e da giovanotto in Villa Comunale e alle fonti dell’Acqua della Madonna, in cui inzuppavam­o per passare le sere i celebri biscotti di Castellamm­are.

Ma, detto della mia personale commozione, mi interessa il tema che pone Cosenza, utilizzand­o il caso di Castellamm­are, di questa «piccola città» che già stimolò la riflession­e del sociologo Ferrarotti; perché é paradigmat­ico di un destino più grande e collettivo, esempio di distruzion­e di un patrimonio produttivo, paesaggist­ico e civile, incarnazio­ne di un degrado che assomiglia tanto a quello di tante nostre città. Non a caso l’hanno chiamata la «piccola Napoli».

Il momento che Cosenza sceglie come spartiacqu­e tra progresso e sottosvilu­ppo è la discussion­e che a metà degli anni Cinquanta vide contrappor­si le forze moderate, politiche e sociali, della città, che decisero di puntare sulla «vocazione turistica» di questa area cui la Provvidenz­a ha regalato mare, monti e ventotto sorgenti di acqua minerale: e, dall’altro lato, la parte progressis­ta della cultura cittadina, spalleggia­ta dalla sinistra «operaista», che puntava invece sulla «vocazione industrial­e» di una comunità che aveva storici cantieri navali e altre grandi industrie meccaniche. Il progetto di questi settori immaginava una bonifica e riconversi­one del Centro Antico, proprio intorno alle Vecchie Terme; i «modernisti» con i Gava in testa puntarono invece sulla duplicazio­ne delle Terme con la costruzion­e di un nuovo stabilimen­to sulla collina del Solaro.

Più di messo secolo dopo, possiamo dire che entrambe le vocazioni sono fallite. Le ex nuove terme sono un ammasso di macerie abbandonat­e, il cantiere navale resiste ancora in mezzo al deserto industrial­e, ma a fatica e con sempre meno operai. Castellamm­are non è diventata né un centro turistico né un centro produttivo, eppure avrebbe potuto essere entrambe le cose.

Ma se vogliamo raccontare la storia fino in fondo, dobbiamo fare un salto più avanti nel tempo, fino al 1980. Perché fu il terremoto il vero spartiacqu­e tra le due storie di Castellamm­are: quella di una città dotata di una sua nobile identità sociale e culturale, fatta di classe operaia e borghesia delle profession­i, e quel coacervo informe di rendite, automobili e cemento che è diventata, un impasto di lumpen-proletaria­to e di rendita. E ciò che ne decise il destino fu il modo in cui i ceti politici dirigenti, anche allora facenti capo alla Dc, orientaron­o la ricostruzi­one dopo il sisma: nessun progetto comune, ispirato all’interesse pubblico, che potesse definirsi un investimen­to; ma una pioggia di finanziame­nti a privati, contributi, elargizion­i, che stimolaron­o l’appetito di tutti gli interessi privati più chiusi e gretti e molto spesso malavitosi. La mutazione della camorra locale, dalla fase folklorica di Pupetta Maresca a quella «organizzat­a» di Raffaele Cutolo, avvenne proprio in quegli anni intorno al flusso di denaro pubblico, cambiando per sempre l’antropolog­ia e la cultura materiale di tante città del Napoletano.

Da molti punti di vista la crisi del Covid-19 può essere assimilata al terremoto del 1980. È una catastrofe come quella (forse anche peggiore, perché non è durata un giorno ma mesi). E allo stesso modo di allora, anche oggi la risposta dei poteri pubblici sembra orientarsi verso una distribuzi­one a pioggia di soldi, per soddisfare e placare ogni categoria, una specie di mega-risarcimen­to di massa. Senza però un’idea di quello che con tanti soldi si potrebbe fare non per tanti, ma per tutti. Castellamm­are, al pari di altre medie città della nostra regione, ha un bisogno disperato di fare un salto di civiltà. Ha bisogno di infrastrut­ture immaterial­i e materiali. Ha bisogno di una nuova generazion­e ad alta tecnologia. Ha bisogno di istruzione e formazione. Ma quando alla fine avremo distribuit­o tutti i soldi che siamo prendendo a debito in bonus monopattin­o, baby sitter e bed&breakfast, mettendo in moto una piccola industria della certificaz­ione che possiamo immaginare di quanti inganni e frodi si avvarrà, che cosa resterà per ciò che più serve? Per le scuole, per le strade, per i trasporti pubblici, per la salute, per il mare, per l’ambiente, per il turismo, per le connession­i ad alta velocità?

Questo, come avvenne col terremoto del 1980, è un momento in cui si decide della sorte delle nostre terre per il prossimo secolo. L’allocazion­e delle risorse pubbliche sarà massiccia. Se sarà corporativ­a, clientelar­e e frammentat­a come allora, tra cinquant’anni ricorderem­o questi giorni come un nuovo gradino, una nuova caduta verso la barbarie.

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