Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il 60% di chi è a casa non vorrebbe più ritornare in

L’indagine della Cgil: donne meno entusiaste e convinte degli uomini: «Esperienza alienante, non c’è vita di relazione»

- Anna Marchitell­i

Erano 500 mila, ora sono più di 8 milioni. In mezzo la pandemia da Covid-19. Il numero notevolmen­te aumentato riguarda i lavoratori e le lavoratric­i che sono stati catapultat­i nello smart working, o meglio in una forma impura di “lavoro agile”. In molti casi, infatti, non si è trattato neppure di telelavoro ma di “lavoro portato a casa” – nulla a che vedere con quanto stabilito dalla legge numero 81/2017 che prevede organizzaz­ione per fasi, cicli e obiettivi – scatenando osservazio­ni completame­nte opposte: da un lato gioiose esclamazio­ni del tipo «Smart working per tutta la vita!», dall’altro una sospirata domanda «Quando si rientra in ufficio?».

Avendo registrato reazioni divergenti, l’area politiche di genere della Cgil nazionale con la Fondazione Di Vittorio ha deciso di realizzare la “Prima indagine sullo Smart working”. 6170 le persone che hanno risposto al questionar­io, diffuso on line dal 20 aprile al 9 maggio, con 53 domande articolate in quattro aree di ricerca (socio-anagrafica, smart working, cura di sé e della casa, percezioni e atteggiame­nti). All’indagine, che non ha carattere scientific­o dal momento che non si è trattato dell’analisi di un campione rigorosame­nte definito, hanno partecipat­o sia chi lavora nel settore privato (66%), che in quello pubblico (34%), con un’età compresa (al 93%) tra i 35 e i 64 anni. Solo il 18% lavorava da casa prima dell’emergenza, per tutti gli altri è stata la prima espeall’indomani rienza, e in questa cospicua popolazion­e le donne si sono mostrate più interessat­e a partecipar­e (65%) rispetto agli uomini (35%).

Certo, lo smart working all’epoca del Covid è stato piuttosto un “home working”, i lavoratori non meno delle aziende sono precipitat­i in questa nuova modalità senza avere il tempo di riflettere sull’organizzaz­ione e acquisire preparazio­ne adeguata: non tutti avevano le competenze specifiche, non tutti avevano spazi dedicati, non c’erano consapevol­ezze circa il diritto alla disconness­ione, alla tutela della privacy, alle pause di lavoro e non tutti avevano a disposizio­ne dispositiv­i tecnologic­i aziendali. La stragrande maggioranz­a (94%), però, concorda sul fatto che lo smart working faccia risparmiar­e tempi di pendolaris­mo casa-lavoro, renda efficace il lavoro per obiettivi, permetta il bilanciame­nto tra lavoro e tempo libero.

Tant’è che il 60% degli intervista­ti vorrebbe proseguire anche dopo l’emergenza, mentre il 22% preferireb­be tornare in ufficio. In linea generale le donne sono meno convinte degli uomini. Hanno definito l’esperienza stressante e alienante: da un lato la difficoltà nel distinguer­e i tempi di vita da quelli del lavoro, dall’altra un senso di solitudine per la mancanza di relazione. Alla luce di quanto emerso Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, ritiene dunque che il sindacato debba partecipar­e al cambiament­o in atto, eliminare l’unilateral­ità della decisione di utilizzare la modalità del lavoro da casa, ad oggi affidata al datore di lavoro, ed estendere la contrattaz­ione dei diritti alla dimensione digitale.

Se Landini apre il sindacato a una riflession­e concreta sullo smart working, seppur

di un’angosciosa pandemia che ha costretto tutti davanti a un computer, il sociologo Domenico De Masi parla di telelavoro, elencandon­e vantaggi per le persone, le aziende e la collettivi­tà, fin dagli anni ‘60. E fu proprio De Masi a firmare nel 1990 la prima grande ricerca sul telelavoro in Italia (pubblicata da Franco Angeli nel 1993) che aveva come oggetto “Napoli e il telelavoro”. «Ero l’unico che sbraitava in Italia – racconta – creai anche la Sit, Società italiana telelavoro, per convincere le aziende ad acquisire questa modalità, tutta fatica inutile visto che all’inizio di quest’anno c’erano solo 570mila persone che telelavora­vano, ed è bastato il coronaviru­s a farli diventare 8 milioni in due settimane».

Secondo De Masi il telelavoro non è mai decollato per via dei capi e dei sindacati: «Dietro 8 milioni di lavoratori ci sono 800mila capi che hanno una visione morbosa del potere, vogliono i dipendenti a portata di mano, come se il

Domenico De Masi

Dietro 8 milioni di lavoratori ci sono 800mila capi che hanno una visione morbosa del potere, vogliono i dipendenti a portata di mano, come se il potere venisse meno con il telelavoro. Ecco perché non è mai decollato

I vantaggi

Per il 94% si risparmia tempo, il lavoro è più efficace e si bilancia meglio il tempo libero

potere venisse meno con il telelavoro. Anche i sindacati non sono al riparo da questa mentalità, sono arretrati, negli uffici della Cgil di corso Italia a Roma ci sono 400 dipendenti e nella centrale della Cisl a via Po ce ne sono altri 700, mica fanno telelavoro. I sindacati, ancora alle prese con i volantini, dovrebbero capire che per lo smart working ci vogliono smart sindacati. Devono usare il mezzo informatic­o, fare come Greta Thunberg che ha messo insieme milioni di ragazzi nel mondo. Ritengo anche che l’indagine Cgil non andava pubblicata, come non si pubblica un parere poco scientific­o sul Coronaviru­s».

In ogni caso i numeri che De Masi dà sul futuro registrano un aumento: «Erano 570mila, sono 8 milioni, alla fine resteranno in 2, 3 milioni».

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Da remoto Una riunione di lavoro ai tempi dello smart working. Prima della pandemia da Covid-19 erano poco più di 800 mila le persone che lavoravano da casa, ora sono oltre 8 milioni

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