Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Un ladro di poesie con l’anima napoletana
Sono entrato per la prima volta nel Fabbricone - uno dei quattro teatri, insieme con il Metastasio, il Fabbrichino e il Magnolfi, gestiti dalla Fondazione Teatro Metastasio di Prato - in occasione del debutto, il 18 maggio del 1986, di «Ignorabimus», lo spettacolo di Luca Ronconi in tutti i sensi monstre: per la durata, dodici ore; per il costo, oltre un miliardo; e per la scenografia firmata da Margherita Palli, lo spaccato fedelissimo, e interamente in muratura, di un palazzo berlinese ultracentenario dell’Ottocento, con pareti alte sei metri, bugnati, rosoni, lesenature, marmi da rivestimento, bronzi e vetri neutri per le finestre e, naturalmente, mobili e suppellettili d’epoca, autentici o altrettanto fedelmente riprodotti.
Era domenica, quel 18 maggio dell’86. E faceva un caldo infernale. Siamo entrati nel Fabbricone (si chiama così perché è l’ex magazzino di una storica struttura industriale pratese) alle tre del pomeriggio e ne siamo usciti alle tre della notte successiva. E per giunta Ronconi in linea con il sarcasmo esercitato dall’autore, Arno Holz, verso i suoi stessi personaggi - moltiplicò e accentuò beffardamente (e sadicamente) le valenze mortuarie esibite dal dramma rappresentato: a partire dalla sistemazione degli spettatori, costretti in banchi perfettamente simili a quelli di un’aula d’anatomia dell’Università. A mano a mano crollarono in gran parte, compresi i critici. Franco Cordelli abbandonò la partita, dopo un paio d’ore, al grido: «Certi record li lascio a Ronconi!». E gli altri s’addormentarono con la testa sui banchi. Alla fine eravamo svegli solo io e il grande Roberto De Monticelli del «Corriere della Sera».
Aggiungo subito, però, che lo spettacolo ripagava ampiamente di tanta fatica. Luca Ronconi, riportando in scena «Ignorabimus» dopo l’unica rappresentazione del 14 aprile 1927 allo Schauspielhaus di Düsseldorf, volle, dichiaratamente e strenuamente, mostrarsi e dimostrarsi addirittura più «conseguente» dell’autore. Infatti, Holz fu per l’appunto l’alfiere del «naturalismo conseguente», il movimento letterario che, nato in Germania intorno al 1890, condusse agli esiti estremi le teorie di Ibsen, Tolstoj e Zola, propugnando - a fronte della semplice imitazione - una perfetta riproduzione verbale della realtà sensoriale quotidianamente percepita.
Dunque, mentre dal giardino e dalla strada arrivavano in quel polveroso interno berlinese l’ossessivo cinguettìo degli uccelli e i laceranti stridori del traffico (e nel quinto atto erano sostituiti, quel cinguettìo e quegli stridori, dal terribile ticchettìo d’innumerevoli orologi), Ronconi - giustamente, e giusta la battuta che parla di una «bestia prigioniera» - faceva muovere i personaggi proprio come animali in gabbia, secondo giri concentrici e spostamenti di fianco assolutamente ineffettuali.
Tutto questo per dire, in sintesi, che al Fabbricone si son viste e si vedono alcune delle cose più interessanti del teatro d’oggi. Al Fabbricone, infatti, ho visto all’opera, tre anni fa, la coppia che considero una delle realtà di spicco della scena italiana: quella composta dall’autore Armando Pirozzi, napoletano, e dal regista Massimiliano Civica, reatino. E il testo presentato da Pirozzi nella circostanza, «Un quaderno per l’inverno» (Premio Ubu 2017 per il miglior nuovo testo italiano), mi sembra molto in sintonia con il momento che stiamo attraversando, a proposito del quale non pochi hanno indicato come ancora di salvezza, durante la paralisi indotta dalla quarantena, il ricorso alla lettura.
In «Un quaderno per l’inverno» c’imbattiamo in un professore universitario di letteratura, Velonà, che, rientrando a casa con una busta di arance, trova ad aspettarlo un ladro, Nino, che lo minaccia con un coltello. Ma Nino non vuole soldi. Nella borsa del computer che ha rubato al professore in facoltà c’era un quaderno con sette poesie. Nino le ha trovate «bellissime» ed ora vuole che Velonà gliene scriva, seduta stante, un’altra come quelle. E il professore, che dapprima si rifiuta, dicendo che non ha più voglia di scrivere, finirà per cedere alla richiesta, partorendo di malavoglia un rachitico componimento di appena tre versi.
Questa, dunque, la situazione di partenza. E subito, proprio all’inizio dello spettacolo, Civica metteva in campo un’invenzione che non esito a definire strepitosa, perché anticipava, e illuminava come meglio non si sarebbe potuto, tutti i risvolti profondi del testo: Velonà e Nino si presentavano insieme, non c’erano un prima (il professore che entra in casa) e un dopo (il professore che vi scopre il ladro); e di conseguenza, il tempo del plot si annullava.
Infatti, Velonà e Nino, più che veri e propri personaggi, sono, insomma, funzioni di una storia senza storia, ossia funzioni dell’essere al momento. E il plot, più che un vero e proprio plot, è il racconto del plot. È, nel solco di Pirandello, la Forma in cui l’uomo tenta disperatamente d’ingabbiare l’imprevedibilità della vita: del resto, sono già una Forma, per l’appunto, il quaderno e le poesie che contiene, intese a trattenere nella metrica l’attimo fuggevole dell’innamoramento dal quale il professore racconta che nacquero.
Non a caso, poi, nella terza delle tre scene che compongono quest’atto unico la situazione si capovolge. Dopo otto anni il ladro torna nella casa del professore e gli porta la seguente poesia scritta dal figlio: «Oggi papà mi ha regalato un quaderno. / Dentro c’è qualche poesia. / Mi ha detto di scriverci anche una mia. / Ha detto che è per far passare più presto l’inverno. / Oggi papà mi ha regalato un quaderno, per l’inverno». Come si vede, la poesia scritta nel quaderno dal figlio di Nino ha per tema il quaderno stesso. Giacché la suprema saggezza (o l’unica consolazione) è nella tautologia, nella vita che non significa altro che la vita.
Ancora non a caso, infatti, Pirozzi dichiara in una nota: «Il tema centrale del testo è la scrittura e la sua possibilità di incidere direttamente sulla realtà». E quindi torna ancora una volta alla ribalta quel Don Chisciotte che rappresenta la frattura tra le parole e le cose nella quale consiste la crisi fondamentale dell’età moderna. Di modo che «Un quaderno per l’inverno» si risolve in un lancinante ossimoro. Poiché la grande scrittura (o, semplicemente, la scrittura significante) è sempre una scrittura problematica, una scrittura che si mette in dubbio e in discussione nel momento stesso in cui si fa.
Penso da un lato al Maurice Blanchot per il quale scrivere è un «gioco insensato» e dall’altro all’Enzo Moscato che in «Mal-d’-Hamlé» prorompe nel grido: «No, no, ati, ate! Altre, sempre! / Sempe cchiù parole, voglio! / Words, words, words, a mmuorze, a mmuorze, a mmuorze!».
Maurice Blanchot è il Velonà che afferma: «No, non scriverò più una parola. Non io. Mi basta questa condanna a leggere e studiare tutte queste stupide parole che hanno scritto tutti gli altri, scritte chi sa per chi, e chi sa in che modo trattati poi da queste persone che tanto insostituibili sembravano per loro». Ed Enzo Moscato è il Nino che, parlando della moglie in coma, dice a Velonà: «Io sono sicuro che se le leggo una tua poesia stasera Anita reagirà, e si sentirà meglio, forse non si sveglierà, non si sveglierà subito, non si sveglierà adesso, ma col tempo, se tu mi aiuti, le leggerò le tue poesie, e lei si sveglierà, prima o poi si sveglierà».
L’autore
Armando Pirozzi: «Il tema centrale del testo è la scrittura e la sua possibilità di incidere direttamente sulla realtà»