Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Cari napoletani, non ci resta che piangere
Itemi trattati alcuni giorni fa sulle colonne del Corriere del Mezzogiorno da Matteo Cosenza e da Antonio Polito mi sollecitano qualche riflessione.
Anche perché si tratta dei ragionamenti di due validissimi giornalisti che ho il piacere di conoscere dai tempi del Paese Sera degli anni ‘80, quando collaboravo con quel giornale criticando proprio le scelte che vengono richiamate della ricostruzione post-sisma a Napoli del 1980 e del dopo bradisisma a Pozzuoli di pochi anni dopo. Giornalisti ai quali resto affettuosamente molto legato, a maggior ragione adesso che mi rendo conto di aver in comune anche Castellammare di Stabia — «patria» e punto di
partenza del ragionamento di entrambi — dove ho abitato dal 1948 al 1951. Ma questo, comprensibilmente, al lettore interessa poco.
Quello che a tutti interessa è il tema trattato, se le esperienze passate e in particolare quelle degli anni ’80 ci insegnano qualcosa oggi per l’intervento che il governo sta predisponendo per la pandemia del Coronavirus. La tesi di Polito è che la crisi del Covid-19 rassomigli a quella del terremoto del 1980, facendo prevalere la «distribuzione a pioggia di soldi, per soddisfare e placare ogni categoria, una specie di mega-risarcimento di massa. Senza però un’idea di quello che con tanti soldi si potrebbe fare non per tanti, ma per tutti». Insomma, bisognerebbe avere un progetto e indirizzare gli interventi per «le scuole, per le strade, per i trasporti pubblici, per la salute, per il mare, per l’ambiente, per il turismo, per le connessioni ad alta velocità».
Tesi ineccepibile, che forse però andrebbe articolata distinguendo due fasi. Quella già avviata è stata guidata indispensabilmente dalla necessità di lenire le sofferenze causate dalla strategia del parziale blocco delle attività e della clausura domestica (il penoso lockdown). In merito il governo verrebbe a dir poco lapidato se avesse predisposto la selezione delle risorse con esclusioni inevitabilmente dolorose, non distribuendo — come si afferma sarcasticamente — «tutti i soldi che stiamo prendendo a debito in bonus monopattino, baby sitter e bed&breakfast, mettendo in moto una piccola industria della certificazione che possiamo immaginare di quanti inganni e frodi si avvarrà». E una seconda futura per il governo centrale, le Regioni, le Città metropolitane, le amministrazioni comunali, che, ai diversi livelli di competenza e responsabilità, hanno il compito ineludibile di preparare e di mettere in campo una strategia commisurata sulle realtà locali, capace di guidare lo sviluppo dei prossimi anni.
Pensando al Mezzogiorno, alla Campania e a Napoli, è evidente quanto impegnativo sia il compito di attrezzarsi con la dovuta lungimiranza. Per il Mezzogiorno non si può non ripartire dal piano approntato pochi mesi fa dal ministro Provenzano, a mio avviso, troppo sveltamente criticato, anche selezionando in parte e con sagacia l’ impiego strategicamente calibrato delle risorse che l’Ue dovrebbe mettere a disposizione, col recovery fund e con il Mes.
E per Napoli? Per Napoli non resta che piangere? Come verrebbe da fare, pensando che il prossimo 2021 saranno trascorsi trent’anni dalla chiusura dell’Italsider, con il radicale processo di deindustrializzazione di tutta l’area metropolitana e con l’assenza della sempre lamentata mancanza di una visione per la transizione della nostra città all’economia post-industriale. Onestamente credo che, un’operazione di questa portata, assolutamente indispensabile, vada condotta mettendo a sistema il vorticoso e generoso flusso di idee che fluiscono in questi giorni sulla stampa, ma soprattutto facendo tesoro delle poche certezze emerse in questa tremenda prova. Una forse è che per affrontare un impegno così arduo occorra una guida sicura, che in Campania solo
Vincenzo De Luca può tentare di assicurare, impegnandosi a costruire un programma ben calibrato basato su una lettura perspicace della situazione locale e sorretto però dalla difficile, ma indispensabile leale collaborazione istituzionale.
Anche perché, se gli anni dal 1945 al 1975 in Europa sono stati archiviati come i Trenta gloriosi, quelli che dal 1991 ad oggi a Napoli vanno a chiudersi sono da considerarsi purtroppo come i Trenta ingloriosi.
Oggi piuttosto che rifugiarsi nelle fantasiose suggestioni della rigenerazione dei borghi, nel Mezzogiorno, in Campania, a Napoli urge una politica per creare nuovo lavoro. Gli esempi non sono lontani. Quello positivo è a oriente della città, a San Giovanni a Teduccio, dove è stato creato il polo universitario
della Federico II, giustamente considerato espressione del modello della smart city, premiato dall’Ue come best practice per l’uso dei Fondi europei, con l’Apple Developer Academy e il Cnr, risposta avanzata alla dismissione della Cirio, per impulso del formidabile trio Manfredi- NicolaisCosenza. Una direzione di marcia inoppugnabile verso l’economia della conoscenza che ha avviato la rigenerazione di un’area periferica.
Quello negativo è a occidente nell’area dismessa di Bagnoli, che ha visto all’inizio degli anni novanta il frettoloso accantonamento dell’ipotesi del Parco Scientifico e tecnologico e di quelle successive tese ad esplorare la strada dello sviluppo innovativo e ambientalmente sostenibile, creando nuovo lavoro.