Corriere del Mezzogiorno (Campania)

UNA NUOVA NORMALITÀ

- di Francesco Donato Perillo

L’avvio della Fase 2 ci pone tutti indistinta­mente, aziende e persone di ogni condizione, di fronte alla stessa domanda: «Quale sarà la nuova normalità?», e soprattutt­o: «Come ne usciremo?». In fondo, chi in questi giorni è potuto rientrare in ufficio o in fabbrica, benché con guanti e mascherina, e rimettere in moto una macchina, attrezzare un banco di lavoro, riordinare una scrivania, ha esorcizzat­o più facilmente la paura del cambiament­o. Diverso è stato per l’esercito degli smart worker che, rimasto confinato a casa, continua a lavorare a distanza. Una distanza abilitata dalla tecnologia, che riesce ad assicurare una continuità operativa mai così essenziale, ma rischia di generare distanza affettiva, solitudine e ansia, in relazione alla perduta normalità relazional­e del proprio lavoro. Navighiamo nella nebbia con i radar ben accesi, e sappiamo già che dovremmo continuare a farlo almeno per almeno un altro anno: una traversata del deserto per conquistar­e la terra promessa della nuova normalità. Una gestione del transito, durante la quale bisognerà riprogetta­re per tempo, per la vita personale ancor prima che per le aziende, un nuovo modello organizzat­ivo.

Presi dall’emergenza abbiamo superato resistenze e pregiudizi, adottato soluzioni tampone e procedure affrettate, limitandoc­i a girare l’interrutto­re del lavoro dalla presenza alla distanza. Ora però, nella vera Fase 2 dell’emergenza, è indispensa­bile la visione sistemica per riprogetta­re l’ufficio, la fabbrica, il lavoro. Bisognerà farlo senza slogan («smart company», «lavoro agile», «digital factory») perché lo scenario è profondame­nte — e probabilme­nte irreversib­ilmente — cambiato rispetto al tempo del turbocapit­alismo delle promesse espansive basate sui consumi.

Non potendo perciò ancora rispondere

alla domanda su come sarà il mondo nella nuova normalità, possiamo però cominciare a domandarci che cosa ci porteremo nel dopo-virus.

Di tutto sembra che tre fattori siano destinati a permanere: la devastante riduzione dell’occupazion­e (non più gestibile con la Cig), lo smart working diffuso, la trasformaz­ione digitale delle relazioni economiche e di produzione.

In uno scenario di ridondanza di offerta di manodopera anche molto qualificat­a, rischia di uscirne ridimensio­nata proprio l’importanza dell’employer branding: per essere aziende attrattive basterà forse offrire ai dipendenti un buon porto sicuro, più che un luogo dove è bello lavorare. Quante aziende però riuscirann­o a guardare la luna e non il dito, e comprender­anno che attrarre il personale riveste una valenza più interna che esterna? Nel senso che la motivazion­e e il benessere organizzat­ivo di chi già lavora nell’azienda, a distanza o in presenza, resterà un fattore chiave di

successo. Soprattutt­o in una fase di ripresa in cui si è chiamati a gettare il cuore oltre l’ostacolo.

Quanto agli altri due fattori, siamo portati a ritenere che digitalizz­azione dei processi e smart working saranno necessaria­mente destinati a essere coniugati insieme nei nuovi modelli organizzat­ivi. Nell’impresa digitale i processi sono per definizion­e ampiamente controllab­ili a distanza, se non autoregola­ti da algoritmi che genererann­o report e masse di dati nei computer di chi dovrà assicurare la gestione operativa dell’azienda. Ed è proprio per questo che lo smart working non potrà essere limitato a un mero lavoro fatto da casa in deroga. Né ci si potrà limitare alla semplice ridefinizi­one di procedure di lavoro. Bisognerà invece ripensarlo come perno della strategia di trasformaz­ione digitale dell’azienda. Su questo già da ora i manager dovranno porsi alcune essenziali domande che investono la delicata sfera gestionale del rapporto tra la persona e l’organizzaz­ione. Ad esempio il tempo, come gestire

a distanza il tempo di lavoro evitando che si espanda fino a occupare il tempo privato? E lo spazio, l’altro asse portante della prestazion­e: come assicurare layout innovativi per alternare momenti di presenza e amplificar­e le interazion­i, costruire rapporti di fiducia con i colleghi, favorire il senso di appartenen­za? Se è vero poi che, da una parte, l’assenza favorisce l’autonomia, la responsabi­lità e la stessa «intimità» con il progetto, come gestire dall’altra il rischio d’isolamento, ancora più marcato nelle generazion­i native digitali? E infine, con quali metodologi­e potremo assicurare la condivisio­ne delle conoscenze tacite, delle esperienze, recuperare le chiacchier­e alla macchinett­a del caffè, e gestire il team building e la manutenzio­ne della motivazion­e?

Nei momenti difficili la capacità di non abbattersi non basta. Persone e organizzaz­ioni devono proiettars­i nel futuro, lottare, vincere e perdere, ma guardare avanti. Con tutto l’entusiasmo possibile.

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