Corriere del Mezzogiorno (Campania)
UNA NUOVA NORMALITÀ
L’avvio della Fase 2 ci pone tutti indistintamente, aziende e persone di ogni condizione, di fronte alla stessa domanda: «Quale sarà la nuova normalità?», e soprattutto: «Come ne usciremo?». In fondo, chi in questi giorni è potuto rientrare in ufficio o in fabbrica, benché con guanti e mascherina, e rimettere in moto una macchina, attrezzare un banco di lavoro, riordinare una scrivania, ha esorcizzato più facilmente la paura del cambiamento. Diverso è stato per l’esercito degli smart worker che, rimasto confinato a casa, continua a lavorare a distanza. Una distanza abilitata dalla tecnologia, che riesce ad assicurare una continuità operativa mai così essenziale, ma rischia di generare distanza affettiva, solitudine e ansia, in relazione alla perduta normalità relazionale del proprio lavoro. Navighiamo nella nebbia con i radar ben accesi, e sappiamo già che dovremmo continuare a farlo almeno per almeno un altro anno: una traversata del deserto per conquistare la terra promessa della nuova normalità. Una gestione del transito, durante la quale bisognerà riprogettare per tempo, per la vita personale ancor prima che per le aziende, un nuovo modello organizzativo.
Presi dall’emergenza abbiamo superato resistenze e pregiudizi, adottato soluzioni tampone e procedure affrettate, limitandoci a girare l’interruttore del lavoro dalla presenza alla distanza. Ora però, nella vera Fase 2 dell’emergenza, è indispensabile la visione sistemica per riprogettare l’ufficio, la fabbrica, il lavoro. Bisognerà farlo senza slogan («smart company», «lavoro agile», «digital factory») perché lo scenario è profondamente — e probabilmente irreversibilmente — cambiato rispetto al tempo del turbocapitalismo delle promesse espansive basate sui consumi.
Non potendo perciò ancora rispondere
alla domanda su come sarà il mondo nella nuova normalità, possiamo però cominciare a domandarci che cosa ci porteremo nel dopo-virus.
Di tutto sembra che tre fattori siano destinati a permanere: la devastante riduzione dell’occupazione (non più gestibile con la Cig), lo smart working diffuso, la trasformazione digitale delle relazioni economiche e di produzione.
In uno scenario di ridondanza di offerta di manodopera anche molto qualificata, rischia di uscirne ridimensionata proprio l’importanza dell’employer branding: per essere aziende attrattive basterà forse offrire ai dipendenti un buon porto sicuro, più che un luogo dove è bello lavorare. Quante aziende però riusciranno a guardare la luna e non il dito, e comprenderanno che attrarre il personale riveste una valenza più interna che esterna? Nel senso che la motivazione e il benessere organizzativo di chi già lavora nell’azienda, a distanza o in presenza, resterà un fattore chiave di
successo. Soprattutto in una fase di ripresa in cui si è chiamati a gettare il cuore oltre l’ostacolo.
Quanto agli altri due fattori, siamo portati a ritenere che digitalizzazione dei processi e smart working saranno necessariamente destinati a essere coniugati insieme nei nuovi modelli organizzativi. Nell’impresa digitale i processi sono per definizione ampiamente controllabili a distanza, se non autoregolati da algoritmi che genereranno report e masse di dati nei computer di chi dovrà assicurare la gestione operativa dell’azienda. Ed è proprio per questo che lo smart working non potrà essere limitato a un mero lavoro fatto da casa in deroga. Né ci si potrà limitare alla semplice ridefinizione di procedure di lavoro. Bisognerà invece ripensarlo come perno della strategia di trasformazione digitale dell’azienda. Su questo già da ora i manager dovranno porsi alcune essenziali domande che investono la delicata sfera gestionale del rapporto tra la persona e l’organizzazione. Ad esempio il tempo, come gestire
a distanza il tempo di lavoro evitando che si espanda fino a occupare il tempo privato? E lo spazio, l’altro asse portante della prestazione: come assicurare layout innovativi per alternare momenti di presenza e amplificare le interazioni, costruire rapporti di fiducia con i colleghi, favorire il senso di appartenenza? Se è vero poi che, da una parte, l’assenza favorisce l’autonomia, la responsabilità e la stessa «intimità» con il progetto, come gestire dall’altra il rischio d’isolamento, ancora più marcato nelle generazioni native digitali? E infine, con quali metodologie potremo assicurare la condivisione delle conoscenze tacite, delle esperienze, recuperare le chiacchiere alla macchinetta del caffè, e gestire il team building e la manutenzione della motivazione?
Nei momenti difficili la capacità di non abbattersi non basta. Persone e organizzazioni devono proiettarsi nel futuro, lottare, vincere e perdere, ma guardare avanti. Con tutto l’entusiasmo possibile.