Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Aldo Trione e le pietre come parole
Èdavvero difficile penetrare nella trama intricata che Aldo Trione tesse con maestria nel suo ultimo libro, L’anima e le pietre (Sellerio 2020). Una trama che non si sviluppa e cresce affidandosi alla sicurezza dell’argomentazione decisa e all’incastro ben congegnato delle questioni, ma a essere sperimentato da Trione è un altro gesto del tessere, un gesto che risente della sua riflessione sulla mistica a cui negli ultimi anni molto si è dedicato. Ed ecco che il dispiegarsi della trama teorica assume le inflessioni della meditazione, diviene il fluire del pensiero che proprio in questo movimento libero trova una rinnovata capacità di azzardo.
E meditazione è allora l’interrogazione sulla cosa intorno a cui il volume ruota, un’interrogazione che non mira a risposte o soluzioni, ma sa rimanere aperta nella domanda e questa è continuamente moltiplicata per diventare pluralità sottile e penetrante di nuove domande sulla pura esistenza della cosa, su quel movimento irrisoluto per il quale la cosa si offre a noi e insieme si sottrae, appare assolutamente quotidiana eppure assolutamente intangibile, nota ma avviluppata nel suo irrisolvibile mistero. Come nella Lettera di Lord Chandos di Hofmannsthal non è lo straordinario a provocare «un fremito per la presenza dell’infinito», ma l’umiltà di un semplice «innaffiatoio, un erpice abbandonato in un campo», così per Trione lo è qualcosa che, addirittura, non è neppure un oggetto: la pietra. Nella pietra Trione vede l’assommarsi di contrasti che si serrano irrisolti e irrisolvibili giacché la pietra è rarefazione estrema ed estrema solidità, è chiusa in sé e, al tempo stesso, offerta, disponibile al con-tatto ma indifferente a questo, è qui e ora, ma forse viene da lontano e forse è sempre stata, è presenza muta e però dice con voce muta di un prima in essa inscritto. E se per Lord Chandos quell’eccesso che è la cosa, squassa la parola, la riduce a «vortici (…) oltre i quali si approda al vuoto», Trione osa abitare questi vortici, osa starci dentro e percorrerli. Farlo non significa quietarli o distenderli in parola piana, piuttosto lasciarli parlare come vortici, lasciare che la parola stessa sia vortice e nell’esserlo dica macinando sensi per poi risorgere nell’arbitrarietà dei giochi irrisoluti del significante.
È a questo punto che matura la decisiva mossa teorica di Trione: non si tratta più – o non solo – di pensare con i suoi poeti, piuttosto di far proprio il loro esercizio di svuotamento, di rendere simile esercizio ancora più radicale intrecciandolo a quello a cui si sottoposero i mistici. E sarà a un io spropriato che Trione fa parlare una lingua multipla perché lingua nella quale parlano le più voci degli autori da lui convocati e ai quali Trione non chiede di supportare una tesi che va svolgendo, bensì, e più arditamente, di porre con lui, e finanche contro di lui, la domanda sulla cosa, di mantenerla, questa domanda, viva e inquieta fino a lambire quel punto – il punto della riflessione di Trione - che è l’impossibile spazio dell’assurdo. Uno spazio che non disdice la ragione, ma ne è quel bordo fatto solo di «Colore o luce, uno spazio che è solo Sahara»(G. Deleuze). Un bordo di cui testimoniano le fotografie di Biasucci – le fotografie sono in appendice del libro - ed è proprio lì che Trione voleva giungere e ora vi è giunto.