Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La famiglia del killer di Siani e gli sfarzi in carcere «Voglio dolci e abiti firmati»
I colloqui tra il giovane Antonio e la moglie: «Mi hai portato le lenzuola macchiate d’olio qui dentro ho fatto una brutta figura» Sul blog: «Mio figlio crescerà come il nonno»
Non solo i capi griffati da 2.000 euro a stagione: per mantenere salda la leadership in carcere Antonio Nuvoletto, pronipote (con una o al posto della a per un errore anagrafico) di Angelo Nuvoletta, condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio Siani, aveva bisogno di cibo di prima qualità e biancheria impeccabile. Se i pacchi che gli arrivavano in cella non erano all’altezza, fioccavano i rimproveri alla moglie Daniela. Emerge anche questo dall’ordinanza cautelare notificata martedì, al termine di indagini coordinate dai pm Mariella Di Mauro e Giuseppe Visone, a Nuvoletto e ad altre 15 persone ritenute coinvolte nel controllo criminale di Marano e dintorni. Non era, spiega il gip Maria Laura Ciollaro, solo una questione di bella vita. Prendiamo i capi griffati, per esempio: «Anche tale dettaglio, per quanto apparentemente banale — si legge nell’ordinanza — è altamente significativo del ruolo di leader criminale che Nuvoletto riteneva di ricoprire e di dover mantenere nonostante la detenzione. È infatti nota l’importanza degli status symbol, quali sono senz’altro gli abiti firmati, anche all’interno degli istituti penitenziari».
Il boss così esigente e attento ai dettagli è nato l’8 ottobre 1985, due settimane dopo l’omicidio di Giancarlo Siani. Orgoglioso di essere il nipote di «don» Lorenzo Nuvoletta, figlio di suo figlio Angelo, si augura per i figli un futuro nel segno della tradizione: «Da poco — scriveva nel 2017 su un blog — mi è nato un figlio maschio; lo crescerò con tanto affetto e spero che erediterà i principi del nonno e dei suoi amici!!!».
Antonio, di conseguenza, non pensa minimamente di cambiare vita e mentalità. Finge interesse per la religione evangelica e comincia a frequentare un corso di approfondimento, ma ai familiari che vanno a fargli visita spiega, sorridendo, che la religione non gli interessa affatto: va al corso solo per incontrare altri due boss suoi amici. Non solo: durante un colloquio in carcere con la moglie, scrive il gip, emergeva «la caratura delinquenziale di Nuvoletto durante un battibecco in cui la donna lo esortava a fare tesoro dell’esperienza carceraria per maturare una scelta di vita improntata alla legalità. Antonio reagiva aspramente dicendo che una volta fuori avrebbe saputo lui come comportarsi (evidentemente intendendo reiterare le sue condotte illecite) e facendo presente alla moglie che i suoi familiari hanno sempre saputo che tipo di vita conducesse». Non è questa l’unica circostanza in cui Antonio strapazza Daniela. Un’altra volta, per esempio, le rimprovera di avergli fatto fare brutta figura con i compagni di cella a causa di lenzuola e dolci non all’altezza del suo rango di capo.
Antonio: «Amore, le lenzuola bucate, le lenzuola...».
Daniela: «Ma come bucate?».
Antonio: «Mo le caccio. Bucate, sporche di olio verde. Quando facciamo il letto lo facciamo insieme con i compagni, quando arriva la roba nuova. Quando ho aperto quelle lenzuola...». Daniela: «Di olio?». Antonio: «Ho detto: uha, mi sembra strano... Amore, capisci, per un paio di lenzuola mi hai fatto fare una figura di m...».
Daniela: «Allora, sentimi, io non ti dovevo entrare i panni, perché con il peso non ce la facevamo con i taralli e tutta questa roba qua del mangiare».
Antonio: «Non mi hai entrato un dolce a Natale!».
Daniela: «Ma come? Io ti ho entrato i roccocò!».
Antonio: «I roccocò? E che sono? Qui tutti quanti hanno cacciato babà, code d’aragosta...».
Commenta il giudice: «Nel richiamo è vivo il risentimento, seppure mascherato da un ironico sorriso. Antonio teme che la sua figura di leader sia sminuita nei confronti degli altri detenuti. Insiste facendo notare alla moglie che durante il momento di condivisione delle feste natalizie gli altri hanno portato dolci di tutto rispetto, mentre lui non aveva “cartucce da sparare”».