Corriere del Mezzogiorno (Campania)
IPOCRISIE NEO CORPORATIVE
L’ipocrisia del neocorporativismo è la cifra stilistica di questo delicato passaggio storico. La gestione della Fase 2 costringe a ragionare per settori produttivi e ciascuno ha delle proprie specificità. E così nei giorni scorsi la cronaca ha raccontato delle mobilitazioni «del turismo, della ristorazione, della cultura», e prima ancora «dell’editoria e dell’agroalimentare». Ma una cosa è il fenomeno che si rende manifesto in una determinata contingenza, spesso mediatica oltre che politica, e un’altra cosa è la realtà sociale ed economica concreta del fenomeno stesso. All’interno di ciascun settore, le differenze sono sostanziali. Esiste una scala gerarchica precisa che va da chi sta meglio a chi sta peggio. Chi sta meglio ha più soldi in banca. Ha più auto più nuove e di più grossa cilindrata. Veste capi d’abbigliamento più costosi. Fa vacanze in mete più ambite. E ostenta. Ha più garanzie contributive, più solide certezze abitative, muove quantità di denaro più consistenti, ha maggiore accesso al credito eppure, paradossalmente, soffre la crisi economica prodotta dalla pandemia in maniera sproporzionata rispetto a chi sta peggio di lui o di lei. Perché? Perché disabituato alla realtà del mondo nel quale, suo malgrado, si è ritrovato costretto a vivere d’improvviso, nonostante fosse al riparo della ricchezza accumulata e goduta. C’è una differenza antropologica tra chi soffre questa crisi.
Da una parte ci sono coloro i quali vedono compromessi i consueti guadagni, i propri stili di vita o le aspettative di profitto. Per loro la povertà non consiste nella scarsità ma nel terrore di scendere di qualche gradino nella gerarchia sociale. Di dover guardare in basso commiserando se stessi come loro commiserano chi sta peggio nelle rare occasioni in cui distolgono lo sguardo dal tenore di vita di chi sta meglio di loro.
Da un’altra parte c’è chi viveva già in condizioni di precariato, d’insicurezza, d’incertezza, di fragilità. Anche loro desiderano migliorare le proprie condizioni di vita, ma non vanno nel panico. I primi percepiscono come catastrofica la necessità di attingere ai risparmi che per i secondi non è neppure un’opzione praticabile e dunque non possono fare a meno dello Stato. Per chi vive la crisi come catastrofe, l’idea di mettere mano alla tasca, consumando denaro senza che questo torni a trasformarsi in denaro, è un incubo.
Ma per trasformare il denaro in denaro, occorre il lavoro. Non solo il lavoro degli arditi capitani d’impresa. Occorre il lavoro di chi sta messo peggio di loro, quello dei loro dipendenti. È sulla differenza tra la qualità della vita dei primi rispetto ai secondi che chi sta bene sta meglio di chi sta peggio.
Certo, ciascuno è libero di spendere il proprio denaro come meglio crede. Eppure questa crisi squarcia il significato della parola «proprio». Fino a che punto è proprio il denaro di chi spinge i propri livelli di consumo oltre l’oltraggiosa soglia dello spreco, dell’indifferenza, del menefreghismo e dell’individualismo? Fino a che punto è proprio il denaro di chi non paga tutti contributi, di chi dà i soldi fuori busta o pratica l’illusionismo fiscale. È proprio il denaro di chi affigge sulla serranda il cartello «cercasi personale» cosicché, in caso di controlli, è legittimato a dire che chi sta lavorando è in prova? E chissà quante sorprese se i controlli varcassero la soglia dei retrobottega: il Sars-Covid2 dovrebbe mettersi in coda dietro a batteri, topi, blatte e altri parassiti in attesa dei sussidi.
In quale piazza stavano i passionari neo-corporativi quando le garanzie dei loro lavoratori venivano erose, si agevolavano i licenziamenti, si azzeravano le coperture previdenziali e s’introducevano sussidi per assunzioni a tempo indeterminato puntualmente disattese. Stavano contando i soldi?
E allora… Se i soldi ci sono, che lo spirito imprenditoriale sappia fiutare nuovi settori d’investimento, nuove sfide e goda del brivido della competizione, dello stimolo della concorrenza e della gratificazione del successo. In bocca al lupo!