Corriere del Mezzogiorno (Campania)
MA DOVE SONO FINITE LE ZES?
La fiscalità di vantaggio per le aree meridionali, alla quale ha fatto accenno il premier Conte nei giorni scorsi, può davvero essere la panacea di tutti i mali endemici del Sud? Prima di tutto occorre capire di che si tratta concretamente e, soprattutto, se esistano davvero spazi per introdurla, laddove in passato ogni proposta di tal natura si è scontrata con un duro niet della Commissione di Bruxelles. Fiscalità di vantaggio vorrebbe dire, di fatto, una attenuazione fiscale sull’Ires e sull’Irpef, in generale su tutti i redditi d’impresa, esclusa l’Irap che finanzia la sanità pubblica. Ma non anche su quelle imposte locali, come l’Imu che grava sugli immobili industriali, perché altrimenti lo Stato sarebbe poi costretto a ristorare i Comuni per la conseguente perdita di gettito. L’interrogativo che nasce spontaneo è: per quanto tempo, e soprattutto di che entità, sarebbe questo abbassamento delle tasse? Al primo quesito la risposta non può che essere una: forse, dopo lo sconvolgimento provocato in Europa dal Covid-19, l’Ue potrebbe anche concederla in una fase nella quale è stata di fatto accantonata e messa in frigorifero la norma comunitaria che vieta qualsiasi forma di aiuti di Stato.
Ma, una volta terminata l’emergenza, presumibilmente a fine 2021, questo regime resterebbe in vita o molto più probabilmente si tornerebbe allo statu quo ante pandemia e sarebbe irrimediabilmente cancellato? In quest’ultimo caso un vantaggio transitorio che non diventi strutturale potrebbe addirittura tramutarsi in un rimedio peggiore del male.
Alla successiva domanda, sull’entità dello sconto tributario, va ricordato che Bruxelles non guarda certo di buon occhio l’uso dei fondi europei per agire sulla leva fiscale. Anche perché il tema della competitività dei sistemi economici va affrontato per altra via, prendendo il toro per le corna, e ponendosi una volta per tutte il problema di fondo: la concorrenza impari tra le regioni della convergenza dell’Est e quelle svantaggiate dell’Ue a 15, alla quale porre rimedio con meccanismi di compensazione per quanti vivono in zone valutarie non ottimali, come quella dell’area euro. Ciò perché le asimmetrie nei regimi fiscali, insieme a quelle nel costo del lavoro e nell’utilizzo o meno dello strumento del cambio, mettono le regioni dell’area mediterranea, soprattutto il Mezzogiorno, in una condizione di svantaggio strutturale, misurabile attorno al 30 per cento. Svantaggio sul quale le politiche di coesione non sono mai riuscite da sole a incidere, se non in misura molto parziale.
Di fiscalità di vantaggio si discute da tanti, troppi anni. E in passato il Sud l’aveva, grazie a quegli sgravi contributivi totali di cui beneficiarono le regioni meridionali fino al 1994, risparmiando non poco sul costo del lavoro. Ma quella fiscalizzazione degli oneri sociali fu cancellata proprio dalla Commissione di Bruxelles, in seguito al famigerato accordo tra l’allora ministro del Bilancio italiano, il leghista Pagliarini, e il commissario europeo Van Miert. Oltre un decennio dopo, nel 2006 la Regione Campania provò a riesumarla ma l’ostilità della Commissione fu netta. Nel 2009 si fece cenno a una fiscalità di sviluppo nell’ambito della legge Calderoli sul federalismo fiscale, che, però, era configurata più come una sorta di premio alla produttività, rimasta sempre lettera morta.
In definitiva, di fronte al dumping fiscale degli Stati membri dell’Ue non appartenenti all’area euro, che giustifica macroscopiche differenze nei livelli di tassazione e del reddito d’impresa tra Paesi — in Bulgaria si paga il 24,5 per cento di imposte e contributi sul lavoro contro il 42,8 per cento dell’Italia — prima di fare doppi e tripli salti pindarici, sarebbe forse meglio far funzionare ciò che già c’è e gode di interessanti agevolazioni fiscali. Come le Zone Economiche Speciali, costituite al Sud ma che giacciono in un limbo da troppo tempo.