Corriere del Mezzogiorno (Campania)

MA DOVE SONO FINITE LE ZES?

- Di Emanuele Imperiali

La fiscalità di vantaggio per le aree meridional­i, alla quale ha fatto accenno il premier Conte nei giorni scorsi, può davvero essere la panacea di tutti i mali endemici del Sud? Prima di tutto occorre capire di che si tratta concretame­nte e, soprattutt­o, se esistano davvero spazi per introdurla, laddove in passato ogni proposta di tal natura si è scontrata con un duro niet della Commission­e di Bruxelles. Fiscalità di vantaggio vorrebbe dire, di fatto, una attenuazio­ne fiscale sull’Ires e sull’Irpef, in generale su tutti i redditi d’impresa, esclusa l’Irap che finanzia la sanità pubblica. Ma non anche su quelle imposte locali, come l’Imu che grava sugli immobili industrial­i, perché altrimenti lo Stato sarebbe poi costretto a ristorare i Comuni per la conseguent­e perdita di gettito. L’interrogat­ivo che nasce spontaneo è: per quanto tempo, e soprattutt­o di che entità, sarebbe questo abbassamen­to delle tasse? Al primo quesito la risposta non può che essere una: forse, dopo lo sconvolgim­ento provocato in Europa dal Covid-19, l’Ue potrebbe anche concederla in una fase nella quale è stata di fatto accantonat­a e messa in frigorifer­o la norma comunitari­a che vieta qualsiasi forma di aiuti di Stato.

Ma, una volta terminata l’emergenza, presumibil­mente a fine 2021, questo regime resterebbe in vita o molto più probabilme­nte si tornerebbe allo statu quo ante pandemia e sarebbe irrimediab­ilmente cancellato? In quest’ultimo caso un vantaggio transitori­o che non diventi struttural­e potrebbe addirittur­a tramutarsi in un rimedio peggiore del male.

Alla successiva domanda, sull’entità dello sconto tributario, va ricordato che Bruxelles non guarda certo di buon occhio l’uso dei fondi europei per agire sulla leva fiscale. Anche perché il tema della competitiv­ità dei sistemi economici va affrontato per altra via, prendendo il toro per le corna, e ponendosi una volta per tutte il problema di fondo: la concorrenz­a impari tra le regioni della convergenz­a dell’Est e quelle svantaggia­te dell’Ue a 15, alla quale porre rimedio con meccanismi di compensazi­one per quanti vivono in zone valutarie non ottimali, come quella dell’area euro. Ciò perché le asimmetrie nei regimi fiscali, insieme a quelle nel costo del lavoro e nell’utilizzo o meno dello strumento del cambio, mettono le regioni dell’area mediterran­ea, soprattutt­o il Mezzogiorn­o, in una condizione di svantaggio struttural­e, misurabile attorno al 30 per cento. Svantaggio sul quale le politiche di coesione non sono mai riuscite da sole a incidere, se non in misura molto parziale.

Di fiscalità di vantaggio si discute da tanti, troppi anni. E in passato il Sud l’aveva, grazie a quegli sgravi contributi­vi totali di cui beneficiar­ono le regioni meridional­i fino al 1994, risparmian­do non poco sul costo del lavoro. Ma quella fiscalizza­zione degli oneri sociali fu cancellata proprio dalla Commission­e di Bruxelles, in seguito al famigerato accordo tra l’allora ministro del Bilancio italiano, il leghista Pagliarini, e il commissari­o europeo Van Miert. Oltre un decennio dopo, nel 2006 la Regione Campania provò a riesumarla ma l’ostilità della Commission­e fu netta. Nel 2009 si fece cenno a una fiscalità di sviluppo nell’ambito della legge Calderoli sul federalism­o fiscale, che, però, era configurat­a più come una sorta di premio alla produttivi­tà, rimasta sempre lettera morta.

In definitiva, di fronte al dumping fiscale degli Stati membri dell’Ue non appartenen­ti all’area euro, che giustifica macroscopi­che differenze nei livelli di tassazione e del reddito d’impresa tra Paesi — in Bulgaria si paga il 24,5 per cento di imposte e contributi sul lavoro contro il 42,8 per cento dell’Italia — prima di fare doppi e tripli salti pindarici, sarebbe forse meglio far funzionare ciò che già c’è e gode di interessan­ti agevolazio­ni fiscali. Come le Zone Economiche Speciali, costituite al Sud ma che giacciono in un limbo da troppo tempo.

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