Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Castellammare, ragioni di una crisi
Il dibattito che si è aperto sulla crisi di Castellammare di Stabia si muove nel solco di una lettura agiografica del bene contro il male. E mi sembra non aiuti più di tanto a capire.
Ma solo a consolare le buone coscienze impegnate in una disputa a identificare quale delle scelte o delle mancate occasioni che hanno visto contrapporsi la sinistra alla conservazione e il patronato sia stata quelle letale. Il nuovo stabilimento termale contro il vecchio? La mancata riconversione della linea di costa pianificata dalle amministrazioni di centrosinistra?
La tesi finora esposta ci dice del trionfo del male contro il bene, scegliete pure a seguito di quale decisiva sconfitta.
Non convince. Non appare credibile, per esempio, che stando a quanto emerge dalle inchieste, con un Rolex in regalo e trentamila euro di sottoscrizione per la campagna elettorale si sia piegata la democrazia e sconfitto il bene. Non mi pare ci sia proporzione e se così fosse il bene non avrebbe alcuna possibilità da nessuna parte, ci deve essere dell’altro. In questa città dalle solide tradizioni operaie ed industriali la sinistra ha avuto radici profonde e ed espresso un ceto dirigente che l’ha governata per decenni. Forse è più utile concentrare l’analisi a capire dove e in cosa la sinistra non è stata capace piuttosto che cercare i capri espiatori.
Perché l’ampio consenso elettorale e politico di cui ha goduto la classe dirigente figlia della tradizione industriale della città non è riuscita a tradurre in scelte e attuazioni i buoni propositi? Perché è sempre prevalsa la disputa, la contesa, le divisioni in bene e male assoluto piuttosto che in virtuosa convivenza e arricchimento?
Questa città deve rassegnarsi alle forze del male trionfanti oppure cominciare a chiedersi dove hanno sbagliato e sbagliano anche i cosiddetti buoni per correggere?
Le comunità cambiano, si rigenerano quando la maggioranza attribuisce un medesimo significato agli eventi e articola una reazione altrettanto condivisa per cambiare le cose. In fondo le Istituzioni dovrebbero proprio aiutare a ridurre le incertezze e le ambiguità insite nella vita civile.
Credo che la città sia rimasta prigioniera della sua tradizione politico culturale cui appartengono, come me, tutte le voci che si sono confrontate in questi giorni. Si ri-propone una narrazione figlia dell’ansia di riscatto dei deboli e gli oppressi contrapposta a chi genera ricchezza, sfrutta e si arricchisce. Quella cultura politica, talvolta credendo di porre rimedio a guasti, ha costruito una gestione vincolistica e burocratica del territorio e degli spazi negando nei fatti la possibilità che si trasformassero insieme alle esigenze economiche e sociali. Dal famigerato Piano Urbanistico Territoriale con tutte le sue declinazioni nelle pianificazioni dei comuni, un vero e proprio delirio dirigista che ha pensato di poter imporre il bene pubblico decidendo nell’infinitesimo dettaglio cosa e come si potesse fare degli scheletri dell’industria morta. Si è addirittura previsto che ogni modifica a quelle sacre tavole dovesse essere approvato con legge della Regione Campania inaugurando così nei fatti la pratica delle eccezioni negoziate con l’arbitrio della politica. Per decenni quelle pianificazioni si sono dimostrate solo capaci di impedire qualunque trasformazione ottenendo solo parzialmente il risultato della salvaguardia ma in forma di mummificazione. Stanno li a testimoniarlo tutti gli scheletri delle fabbriche che ingombrano senza ragione le comunità. Gli strumenti di controllo pubblico e democratico hanno finito solo per essere un limite o al massimo un ostacolo da superare come si può, cercando scorciatoie e vie traverse. Tutto ciò ha incontrato un ceto imprenditoriale gracile, senza inventiva, incapace di promuovere il fare, più incline alla ricerca della speculazione mordi e fuggi e fine a sé stessa che a realizzare nuova impresa facendo crescere competenza e ricchezza: l’altra faccia della medaglia. Ma il cuore dell’incapacità e del fallimento resta l’inadeguatezza a costruire un contesto nel quale le energie virtuose della società potessero cimentarsi per trasformare il passato in futuro costruendo benessere e nuova ricchezza.
Il fallimento sta nell’essere stati incapaci di costruire nuova economia e nuove forme di sviluppo con le energie che ci sono.
E qui il destino cinico e baro non è responsabile lo è molto di più una cultura politica intimamente ostile al mercato, all’impresa e all’iniziativa individuale. Si è favorita un’economia assistita e sostenuta dal debito acquisendo a dismisura alla proprietà pubblica spazi e opportunità come la Reggia, la caserma Cristallina, la Colonia dei ferrovieri e le Terme con il suo albergo solo per sottrarli alla speculazione ma condannandoli alla fatiscenza e all’inutilità. Non si tratta di una caratteristica Stabiese o Italiana basti pensare alla resistenza del giovane astro nascente dei democratici americani Alexandria Ocasio- Cortez che, insieme alle proteste del quartiere operaio di Queen, ha costretto Amazon a riconsiderare il piano di insediare proprio li il proprio headquarter al grido dello scandalo per i vantaggi fiscali che avrebbe ottenuto dalla città di New York e dallo Stato. Amazon naturalmente farà altrove il suo centro probabilmente ottenendo più vantaggi fiscali. Le caratteristiche di una sinistra cresciuta nella società industriale che ha abbracciato i nuovi dogmi dell’ambientalismo, di un legalismo vuoto quasi etico più incline a cercare i responsabili del male che a sanzionare fatti patologici non riesce a interpretare lo sviluppo e la crescita nell’intricata globalizzazione. E per paradosso, proprio dove è più radicata e forte, condanna intere comunità a restare ferme e impoverirsi come a Castellammare di Stabia. Forse dovrebbe partire da qui, sforzarsi di capire come essere soggetto capace di costruire alleanze tra interessi, a come promuoverli riconoscendo il valore sociale dell’iniziativa privata e dell’impresa insieme al lavoro.