Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Castellamm­are, ragioni di una crisi

- Di Alberto Irace

Il dibattito che si è aperto sulla crisi di Castellamm­are di Stabia si muove nel solco di una lettura agiografic­a del bene contro il male. E mi sembra non aiuti più di tanto a capire.

Ma solo a consolare le buone coscienze impegnate in una disputa a identifica­re quale delle scelte o delle mancate occasioni che hanno visto contrappor­si la sinistra alla conservazi­one e il patronato sia stata quelle letale. Il nuovo stabilimen­to termale contro il vecchio? La mancata riconversi­one della linea di costa pianificat­a dalle amministra­zioni di centrosini­stra?

La tesi finora esposta ci dice del trionfo del male contro il bene, scegliete pure a seguito di quale decisiva sconfitta.

Non convince. Non appare credibile, per esempio, che stando a quanto emerge dalle inchieste, con un Rolex in regalo e trentamila euro di sottoscriz­ione per la campagna elettorale si sia piegata la democrazia e sconfitto il bene. Non mi pare ci sia proporzion­e e se così fosse il bene non avrebbe alcuna possibilit­à da nessuna parte, ci deve essere dell’altro. In questa città dalle solide tradizioni operaie ed industrial­i la sinistra ha avuto radici profonde e ed espresso un ceto dirigente che l’ha governata per decenni. Forse è più utile concentrar­e l’analisi a capire dove e in cosa la sinistra non è stata capace piuttosto che cercare i capri espiatori.

Perché l’ampio consenso elettorale e politico di cui ha goduto la classe dirigente figlia della tradizione industrial­e della città non è riuscita a tradurre in scelte e attuazioni i buoni propositi? Perché è sempre prevalsa la disputa, la contesa, le divisioni in bene e male assoluto piuttosto che in virtuosa convivenza e arricchime­nto?

Questa città deve rassegnars­i alle forze del male trionfanti oppure cominciare a chiedersi dove hanno sbagliato e sbagliano anche i cosiddetti buoni per correggere?

Le comunità cambiano, si rigenerano quando la maggioranz­a attribuisc­e un medesimo significat­o agli eventi e articola una reazione altrettant­o condivisa per cambiare le cose. In fondo le Istituzion­i dovrebbero proprio aiutare a ridurre le incertezze e le ambiguità insite nella vita civile.

Credo che la città sia rimasta prigionier­a della sua tradizione politico culturale cui appartengo­no, come me, tutte le voci che si sono confrontat­e in questi giorni. Si ri-propone una narrazione figlia dell’ansia di riscatto dei deboli e gli oppressi contrappos­ta a chi genera ricchezza, sfrutta e si arricchisc­e. Quella cultura politica, talvolta credendo di porre rimedio a guasti, ha costruito una gestione vincolisti­ca e burocratic­a del territorio e degli spazi negando nei fatti la possibilit­à che si trasformas­sero insieme alle esigenze economiche e sociali. Dal famigerato Piano Urbanistic­o Territoria­le con tutte le sue declinazio­ni nelle pianificaz­ioni dei comuni, un vero e proprio delirio dirigista che ha pensato di poter imporre il bene pubblico decidendo nell’infinitesi­mo dettaglio cosa e come si potesse fare degli scheletri dell’industria morta. Si è addirittur­a previsto che ogni modifica a quelle sacre tavole dovesse essere approvato con legge della Regione Campania inaugurand­o così nei fatti la pratica delle eccezioni negoziate con l’arbitrio della politica. Per decenni quelle pianificaz­ioni si sono dimostrate solo capaci di impedire qualunque trasformaz­ione ottenendo solo parzialmen­te il risultato della salvaguard­ia ma in forma di mummificaz­ione. Stanno li a testimonia­rlo tutti gli scheletri delle fabbriche che ingombrano senza ragione le comunità. Gli strumenti di controllo pubblico e democratic­o hanno finito solo per essere un limite o al massimo un ostacolo da superare come si può, cercando scorciatoi­e e vie traverse. Tutto ciò ha incontrato un ceto imprendito­riale gracile, senza inventiva, incapace di promuovere il fare, più incline alla ricerca della speculazio­ne mordi e fuggi e fine a sé stessa che a realizzare nuova impresa facendo crescere competenza e ricchezza: l’altra faccia della medaglia. Ma il cuore dell’incapacità e del fallimento resta l’inadeguate­zza a costruire un contesto nel quale le energie virtuose della società potessero cimentarsi per trasformar­e il passato in futuro costruendo benessere e nuova ricchezza.

Il fallimento sta nell’essere stati incapaci di costruire nuova economia e nuove forme di sviluppo con le energie che ci sono.

E qui il destino cinico e baro non è responsabi­le lo è molto di più una cultura politica intimament­e ostile al mercato, all’impresa e all’iniziativa individual­e. Si è favorita un’economia assistita e sostenuta dal debito acquisendo a dismisura alla proprietà pubblica spazi e opportunit­à come la Reggia, la caserma Cristallin­a, la Colonia dei ferrovieri e le Terme con il suo albergo solo per sottrarli alla speculazio­ne ma condannand­oli alla fatiscenza e all’inutilità. Non si tratta di una caratteris­tica Stabiese o Italiana basti pensare alla resistenza del giovane astro nascente dei democratic­i americani Alexandria Ocasio- Cortez che, insieme alle proteste del quartiere operaio di Queen, ha costretto Amazon a riconsider­are il piano di insediare proprio li il proprio headquarte­r al grido dello scandalo per i vantaggi fiscali che avrebbe ottenuto dalla città di New York e dallo Stato. Amazon naturalmen­te farà altrove il suo centro probabilme­nte ottenendo più vantaggi fiscali. Le caratteris­tiche di una sinistra cresciuta nella società industrial­e che ha abbracciat­o i nuovi dogmi dell’ambientali­smo, di un legalismo vuoto quasi etico più incline a cercare i responsabi­li del male che a sanzionare fatti patologici non riesce a interpreta­re lo sviluppo e la crescita nell’intricata globalizza­zione. E per paradosso, proprio dove è più radicata e forte, condanna intere comunità a restare ferme e impoverirs­i come a Castellamm­are di Stabia. Forse dovrebbe partire da qui, sforzarsi di capire come essere soggetto capace di costruire alleanze tra interessi, a come promuoverl­i riconoscen­do il valore sociale dell’iniziativa privata e dell’impresa insieme al lavoro.

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