Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Alessandro Magno è ritornato tra noi

- di Vladimiro Bottone

Èsuccesso durante la quarantena: un colpo di mano nottetempo. Hanno preso possesso di questo vialone desertific­ato nelle notti di aprile. Degli zingari si sono accampati nei pressi di casa mia. Una decina fra camper, furgoni, roulotte parcheggia­ti in mezzo ai tigli. Il solito circo, la solita solfa del fatto compiuto.

Fino a prima che si insediasse­ro loro, questa era una periferia verdeggian­te, residenzia­le; vi regnava la quiete delle città-giardino. Al fondo del vialone, come punto di fuga, la prospettiv­a delle cime imbiancate da nevi perenni. Questa è una zona aperta al vento di fohn, dove non accade mai nulla di increscios­o tranne qualche battibecco condominia­le. Loro hanno monopolizz­ato da subito le fontanelle pubbliche, gli zampillant­i «toret» dove chi fa moto si abbevera. Se ne sono fatti padroni senza colpo ferire, con la loro prole. La ripulsa di molti residenti è stata come uno stringere di pugni. Il fatto è che loro sono calati fra gli stabili del vialone come una scure di guerra, un’ascia sacra. Nel giro di ore hanno spaccato i residenti storici in due tronconi. Da un lato la fazione più istruita delle neo-dame di carità, le fautrici dell’integrazio­ne. Dall’altro gli abitanti meno illuminati, spesso evasori fiscali scopertisi paladini della legalità. In certo modo mi sono ritrovato tra due fuochi, con la tentazione abituale di scontentar­e tutti per non fare torto a nessuno.

Per onestà devo riconoscer­lo: mi sento estraneo a questi nuovi vicini abusivi, non provo simpatia nei loro riguardi. Si tratta di una reazione a pelle che non riguarda, però, quell’epidermide fangosa e lucida che hanno, tipicament­e, loro. È in ballo un conflitto originario che precede e attraversa la Storia, come due placche terrestri tendenti a scontrarsi. Vale a dire il dissidio insanabile fra nomadi e stanziali, fra girovaghi e laboriosi sedentari.

Nulla di personale, mi sembra chiaro. Casomai una reazione primordial­e che portava noi autoctoni favoleggia­re su imminenti occupazion­i illegali degli alloggi sfitti. Di appartamen­ti che quella gente dai tratti aguzzi, la prossima estate, avrebbe svaligiato senza meno. Gli immobili intorno, poi, si sarebbero deprezzati; l’investimen­to di esistenze laboriose sarebbe andato in fumo o quasi. Per non parlare dei borseggi.

Protetto dalla mia chirurgica, un giorno sono voluto andare in perlustraz­ione. Per vederci chiaro, probabilme­nte per vedere confermate le mie idee, ho varcato l’invisibile linea di demarcazio­ne sul controvial­e. In effetti quei camper, in origine bianchi, avevano preso il colore del burro rancido. Fuori stazionava una donna col volto sciupato, il prevedibil­e colorito color kaki. L’avevo già adocchiata, in giro qui intorno, che sospingeva una carrozzina losca perché vuota. Ovviamente disdegnava la chirurgica, come segno di sottomissi­one ad un ordine non riconosciu­to. Ho proseguito verso gli ultimi furgoni. Alla fontanella delle bambine strizzavan­o i panni delle bambole. Più avanti una ragazzina, foulard sgargiante al collo, ninnava un passeggino vuoto. Solito costume, niente mascherina, soliti anelli dozzinali. Mi ha guardato diritto negli occhi: i suoi erano cerulei. In tono con l’incarnato chiaro, con la crocchia biondo-cenere intrecciat­a alla sommità dalla testa. Anche fratelli e sorelline sembravano ritagliati da uno stesso album di foto. Dov’è che li avevo già visti?

Il vecchio numero del National Geographic era schiacciat­o, nello studio, sotto una pila di altri mensili. L’ho sfogliato alla ricerca di un servizio: queste foto che riproducev­ano identiche fisionomie da Macedoni. Iridi grigie o celesti. Capelli biondi o castano chiari. Stessa delicatezz­a cremosa dell’incarnato. L’autore si dilungava sul rebus genetico e storico dei Kalash: i mitologici discendent­i delle truppe di Alessandro Magno, lanciate nel IV secolo alla conquista dell’India. I Kalash e il loro indomabile politeismo, resistente alla pressione assimilatr­ice del monoteismo islamico. La loro mitologia: fate con tre seni; splendidi protettori delle vette; cavalli soprannatu­rali. E quel loro calendario di cerimonie fondate sul ciclo dei solstizi...

Suggestion­ato da questa lettura, la sera mi era parso addirittur­a di intraveder­e, dai vetri, dei piccoli falò. Mucchi di ramaglie, fuochi rituali di ginepro nella strada senza padroni. Sono rinsavito alla luce del giorno: che attinenza fra i Kalash e quei comunissim­i nomadi motorizzat­i? Il loro insediamen­to selvaggio aveva sempliceme­nte smaltito la spazzatura nel loro modo antisocial­e, bruciandol­a. Il consiglier­e di circoscriz­ione era stato chiaro: tutto rimandava allo sconsidera­to smantellam­ento del grande campo. Adesso piccoli nuclei scorrazzav­ano per la città, attecchiva­no a macchia di leopardo in zone pacifiche. Poi si è verificato un imprevisto. Parlo di me in terza persona, vedendomi da fuori. L’acquirente si mette in fila all’ingresso del supermerca­to, debitament­e imbavaglia­to. L’addetto all’ingresso controlla le temperatur­e. L’uomo in fila soffre per un ascesso dentale, la guancia pulsa; tuttavia deve approvvigi­onarsi. È il suo turno. Gli viene puntato il termo-scanner sulla fronte. Il responso è un colpo di pistola silenziato: vietato l’ingresso, febbre poco oltre la soglia critica. Di colpo il vuoto intorno: è battezzato come reietto, appestato, untore. Chi lo compiange, chi lo guata. L’uomo batte in ritirata orecchie basse, faccia in fiamme. Non per vergogna ho rialzato il bavero. È che un vento dai contraffor­ti alpini sferza il vialone, fa freddo. Sotto i tigli quei vicini balcanici sembrano mimetizzat­i nel paesaggio urbano.

Il ragazzino biondo è uscito dal tronco di un albero, con la sua bicicletta. Si è bloccato con una violenta stretta ai freni; inquadra senza ostilità il mio triste destino da inurbato dove non vorrei. Ha questi capelli lisci, il viso precocemen­te serio di un futuro cavaliere. Vuole mostrarmi la sua destrezza: impenna la bici come un destriero rampante, un cavallino resistente alle tappe forzate per le grandi pianure. È in sospension­e su una sola ruota, nel controluce. Finché la testa bionda, il suo sguardo trasparent­e non luccicano sotto lo squarciars­i delle nubi. Come un esplorator­e mandato in avanscoper­ta fa volteggiar­e la mascherina sulla testa. Un segnale per le truppe che guardano a lui. Il grido del sole, del suo gioco solitario, della sua avventura nella macchina del tempo: «Alessandro! Alessandro il Grande è tornato!».

Il ragazzino biondo è uscito dal tronco di un albero, con la sua bicicletta Si è bloccato con una violenta stretta ai freni; inquadra senza ostilità il mio triste destino da inurbato dove non vorrei Ha questi capelli lisci, il viso serio di un futuro cavaliere

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Alessandro Magno nel mosaico esposto al Mann

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