Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Alessandro Magno è ritornato tra noi
Èsuccesso durante la quarantena: un colpo di mano nottetempo. Hanno preso possesso di questo vialone desertificato nelle notti di aprile. Degli zingari si sono accampati nei pressi di casa mia. Una decina fra camper, furgoni, roulotte parcheggiati in mezzo ai tigli. Il solito circo, la solita solfa del fatto compiuto.
Fino a prima che si insediassero loro, questa era una periferia verdeggiante, residenziale; vi regnava la quiete delle città-giardino. Al fondo del vialone, come punto di fuga, la prospettiva delle cime imbiancate da nevi perenni. Questa è una zona aperta al vento di fohn, dove non accade mai nulla di increscioso tranne qualche battibecco condominiale. Loro hanno monopolizzato da subito le fontanelle pubbliche, gli zampillanti «toret» dove chi fa moto si abbevera. Se ne sono fatti padroni senza colpo ferire, con la loro prole. La ripulsa di molti residenti è stata come uno stringere di pugni. Il fatto è che loro sono calati fra gli stabili del vialone come una scure di guerra, un’ascia sacra. Nel giro di ore hanno spaccato i residenti storici in due tronconi. Da un lato la fazione più istruita delle neo-dame di carità, le fautrici dell’integrazione. Dall’altro gli abitanti meno illuminati, spesso evasori fiscali scopertisi paladini della legalità. In certo modo mi sono ritrovato tra due fuochi, con la tentazione abituale di scontentare tutti per non fare torto a nessuno.
Per onestà devo riconoscerlo: mi sento estraneo a questi nuovi vicini abusivi, non provo simpatia nei loro riguardi. Si tratta di una reazione a pelle che non riguarda, però, quell’epidermide fangosa e lucida che hanno, tipicamente, loro. È in ballo un conflitto originario che precede e attraversa la Storia, come due placche terrestri tendenti a scontrarsi. Vale a dire il dissidio insanabile fra nomadi e stanziali, fra girovaghi e laboriosi sedentari.
Nulla di personale, mi sembra chiaro. Casomai una reazione primordiale che portava noi autoctoni favoleggiare su imminenti occupazioni illegali degli alloggi sfitti. Di appartamenti che quella gente dai tratti aguzzi, la prossima estate, avrebbe svaligiato senza meno. Gli immobili intorno, poi, si sarebbero deprezzati; l’investimento di esistenze laboriose sarebbe andato in fumo o quasi. Per non parlare dei borseggi.
Protetto dalla mia chirurgica, un giorno sono voluto andare in perlustrazione. Per vederci chiaro, probabilmente per vedere confermate le mie idee, ho varcato l’invisibile linea di demarcazione sul controviale. In effetti quei camper, in origine bianchi, avevano preso il colore del burro rancido. Fuori stazionava una donna col volto sciupato, il prevedibile colorito color kaki. L’avevo già adocchiata, in giro qui intorno, che sospingeva una carrozzina losca perché vuota. Ovviamente disdegnava la chirurgica, come segno di sottomissione ad un ordine non riconosciuto. Ho proseguito verso gli ultimi furgoni. Alla fontanella delle bambine strizzavano i panni delle bambole. Più avanti una ragazzina, foulard sgargiante al collo, ninnava un passeggino vuoto. Solito costume, niente mascherina, soliti anelli dozzinali. Mi ha guardato diritto negli occhi: i suoi erano cerulei. In tono con l’incarnato chiaro, con la crocchia biondo-cenere intrecciata alla sommità dalla testa. Anche fratelli e sorelline sembravano ritagliati da uno stesso album di foto. Dov’è che li avevo già visti?
Il vecchio numero del National Geographic era schiacciato, nello studio, sotto una pila di altri mensili. L’ho sfogliato alla ricerca di un servizio: queste foto che riproducevano identiche fisionomie da Macedoni. Iridi grigie o celesti. Capelli biondi o castano chiari. Stessa delicatezza cremosa dell’incarnato. L’autore si dilungava sul rebus genetico e storico dei Kalash: i mitologici discendenti delle truppe di Alessandro Magno, lanciate nel IV secolo alla conquista dell’India. I Kalash e il loro indomabile politeismo, resistente alla pressione assimilatrice del monoteismo islamico. La loro mitologia: fate con tre seni; splendidi protettori delle vette; cavalli soprannaturali. E quel loro calendario di cerimonie fondate sul ciclo dei solstizi...
Suggestionato da questa lettura, la sera mi era parso addirittura di intravedere, dai vetri, dei piccoli falò. Mucchi di ramaglie, fuochi rituali di ginepro nella strada senza padroni. Sono rinsavito alla luce del giorno: che attinenza fra i Kalash e quei comunissimi nomadi motorizzati? Il loro insediamento selvaggio aveva semplicemente smaltito la spazzatura nel loro modo antisociale, bruciandola. Il consigliere di circoscrizione era stato chiaro: tutto rimandava allo sconsiderato smantellamento del grande campo. Adesso piccoli nuclei scorrazzavano per la città, attecchivano a macchia di leopardo in zone pacifiche. Poi si è verificato un imprevisto. Parlo di me in terza persona, vedendomi da fuori. L’acquirente si mette in fila all’ingresso del supermercato, debitamente imbavagliato. L’addetto all’ingresso controlla le temperature. L’uomo in fila soffre per un ascesso dentale, la guancia pulsa; tuttavia deve approvvigionarsi. È il suo turno. Gli viene puntato il termo-scanner sulla fronte. Il responso è un colpo di pistola silenziato: vietato l’ingresso, febbre poco oltre la soglia critica. Di colpo il vuoto intorno: è battezzato come reietto, appestato, untore. Chi lo compiange, chi lo guata. L’uomo batte in ritirata orecchie basse, faccia in fiamme. Non per vergogna ho rialzato il bavero. È che un vento dai contrafforti alpini sferza il vialone, fa freddo. Sotto i tigli quei vicini balcanici sembrano mimetizzati nel paesaggio urbano.
Il ragazzino biondo è uscito dal tronco di un albero, con la sua bicicletta. Si è bloccato con una violenta stretta ai freni; inquadra senza ostilità il mio triste destino da inurbato dove non vorrei. Ha questi capelli lisci, il viso precocemente serio di un futuro cavaliere. Vuole mostrarmi la sua destrezza: impenna la bici come un destriero rampante, un cavallino resistente alle tappe forzate per le grandi pianure. È in sospensione su una sola ruota, nel controluce. Finché la testa bionda, il suo sguardo trasparente non luccicano sotto lo squarciarsi delle nubi. Come un esploratore mandato in avanscoperta fa volteggiare la mascherina sulla testa. Un segnale per le truppe che guardano a lui. Il grido del sole, del suo gioco solitario, della sua avventura nella macchina del tempo: «Alessandro! Alessandro il Grande è tornato!».
Il ragazzino biondo è uscito dal tronco di un albero, con la sua bicicletta Si è bloccato con una violenta stretta ai freni; inquadra senza ostilità il mio triste destino da inurbato dove non vorrei Ha questi capelli lisci, il viso serio di un futuro cavaliere