Corriere del Mezzogiorno (Campania)
IMPRENDITORI E MERIDIONE
Strano attacco del Presidente di Confindustria Bonomi alla «politica»: fa «più danni del Covid-19»! Se allude all’azione del Governo nella pandemia, è un attacco eccessivo. Non è facile «gestire» una bomba in una guerra improvvisa e non dichiarata, con inefficienze antiche: ascrivibili equamente alla destra e alla sinistra. Il vero peggior difetto della politica è oggi la volgarità della comunicazione, offensiva della dialettica democratica. Bonomi sa che ogni sua dichiarazione ha peso politico e non solo nell’economia. Non ceda allora alla foga comunicativa che alimenta rissa e qualunquismo, soprattutto se poi offre spunti interessanti (Repubblica, 31.5.2020). Non tutti condivisibili, ma utili: specie per il Sud. Egli ovviamente difende gl’interessi degl’imprenditori nei confronti di lavoratori e sindacati, Governo e burocrazia, ostacoli per lui della «libertà d’impresa». Un diritto costituzionale (art. 41), purché non «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno» a sicurezza, libertà e dignità umana. L’associazionismo industriale – più o meno come quello sindacale – è spesso diviso, ma Confindustria rappresenta comunque il mondo imprenditoriale, pur avendone perso qualche pezzo di rilievo.
Per esempio, Marchionne la lasciò per sottrarre la Fiat ai contratti nazionali e farsene uno tutto suo. Certo gl’imprenditori hanno subito perdite dal Coronavirus ma, se «alcune imprese non riapriranno e altre si ridimensioneranno», gli effetti più gravi ricadranno sui lavoratoti.
Al Sud la disoccupazione sarà devastante, specie per il turismo e la cultura. Due capisaldi dell’economia meridionale, che già vacillano per l’antica carenza d’infrastrutture e servizi. D’accordo dunque con Bonomi quando dice che il lavoro non si crea per decreto e che «serve una strategia, una visione, un’idea di quale paese vogliamo costruire»,
non pensando solo al «dividendo elettorale» (e aggiungerei: al «dividendo azionario»!). È l’anelito dei cittadini consapevoli. Condivisibile pure che «la crescita dipende anche da dove si allocano le risorse»: non sulla spesa corrente ma su «investimenti nelle infrastrutture, nella sanità, nell’innovazione e nella ricerca, nelle politiche per la sostenibilità ambientale e sociale, nelle politiche attive per il lavoro».
Non condivisibile invece la contrarietà al «reddito di cittadinanza»: se ne può criticare impostazione e attuazione, ma un mezzo tempestivo contro la povertà è necessario per assicurare i bisogni primari delle persone ed evitare la rabbia sociale, che peraltro non giova all’impresa. Tre aspetti comunque meritano particolare attenzione: autocritica degl’imprenditori; Sud e disuguaglianze; sindacato e contrattazione.
1) Bonomi dice agl’imprenditori: «se vogliamo cambiare l’Italia dobbiamo cambiare noi per primi»; ritiene anzi che «il voto del marzo 2018
è stato un voto contro un intero ceto dirigente, dunque anche contro di noi». Vuol dire che gl’imprenditori – ceto dirigente – abbracciano la responsabilità sociale dell’impresa? Se sì, ottimo proposito!
2) Riconosce poi che il «primo errore» degli imprenditori è stato trascurare il Sud: ne hanno parlato molto ma hanno fatto poco. Tanto poco da far pensare che persino lo spettacolo poco edificante di questi giorni all’Unione Industriali di Napoli e Campania sia un effetto dell’insensibilità di Confindustria per le vicende del Mezzogiorno. Bonomi fa bene a rilevare l’accentuarsi delle disuguaglianze: «non più solo Nord-Sud, ma anche centri urbani e periferie»; e diffida del «piccolo è bello». Lo dice sempre pensando al Sud? Speriamo! Anche la sua richiesta di sostegno a medie e grandi imprese – le «nostre multinazionali tascabili» – ha senso se davvero «vuol dire aiutare tutta la filiera produttiva»: cioè, si presume, l’occupazione, specie del Sud. Dimentica però l’aggravarsi delle disuguaglianze
tra ricchi e poveri: sa quanti lavoratori precari soffrono disagio sociale?
3) Interessante infine il confronto col sindacato, al quale Bonomi rimprovera di guardare più al passato che al futuro. In parte è vero: il sindacato è poco preparato ai cambiamenti del lavoro. Deve però adeguare l’organizzazione, non certo smettere di tutelare gli interessi dei lavoratori: vecchi e nuovi, stabili e precari, garantiti e non garantiti. Unità d’intenti nella diversità delle tutele. Incomprensibile inoltre l’idea che il sindacato debba «puntare sulla produttività ancor prima di parlare di aumenti retributivi». Ma non è logico che gli aumenti retributivi siano paralleli e proporzionati alla produttività? È logico anzi che un «imprenditore-innovatore» incentivi i lavoratori per «motivarli», ricordando che essi sono anche «consumatori»: sostengono la domanda e non evadono le tasse.
Bene infine il favore di Bonomi al «contratto sociale» proposto dal Governatore
di Bankitalia Visco, tanto invocato su questo giornale quale precondizione della ripresa. Dunque «con umiltà bisogna mettersi tutti intorno a un tavolo per trovare una via d’uscita». Su questo penso sia d’accordo pure il sindacato che da tempo chiede una nuova «concertazione» per riformare anche il modello contrattuale. Rendere leggero il contratto nazionale è plausibile – «cornice esile» lo definisce Bonomi – purché regoli gl’istituti fondamentali e i trattamenti minimi inderogabili. Del resto già ora il contratto aziendale è più ricco del passato e può rafforzarsi se Confindustria mira davvero a «coinvolgere un sindacato aperto e collaborativo nelle scelte organizzative». Bonomi dice che non è poco. Difatti non lo è, ma la partecipazione alla gestione aziendale sta nell’art. 46 Cost.: con la finalità «dell’elevazione economica e sociale del lavoro» e comunque «in armonia con le esigenze della produzione». È questo lo «Stato sociale di mercato».