Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Prudenti sì ma non ossessivi come Hughes
Howard Hughes, un tempo l’uomo più ricco d’America, pioniere dell’aviazione, personaggio affascinante rievocato sul grande schermo da Leonardo Di Caprio («Aviator»), trascorse i suoi ultimi anni in stanze d’albergo asettiche, «ammalato» di germofobia.
La madre gli aveva inculcato rigidissime norme d’igiene e lui aveva sviluppato l’ossessione per i microbi, tanto da isolarsi dai suoi simili e non godere di una vita piena di onori, privilegi, attrici famose, successi.
Nessuno dovrebbe vivere così in attesa che la politica trovi le risorse per produrre il vaccino e avverta la responsabilità di metterlo a disposizione del maggior numero di individui. Sappiamo però che ci vorranno 18/24 mesi di ricerche e test e sappiamo con ragionevole sospetto che la gerarchia della distribuzione non sarà nè solidale nè ugualitaria, se saranno gli Stati Uniti e la Cina a dare le carte. Forse per l’umanità intera ci
vorranno anni.
Nel frattempo? Benché stia cominciando la libera uscita, niente sarà più come prima? Continueremo a circolare mascherati, a cenare in gabbie di plexiglas, ad avere paura di dare la mano e di baciare una persona cara? C’è un confine fra comportamenti responsabili e ossessione igienista?
Siamo tutti consapevoli che senza misure di contenimento le vittime sarebbero state molte di più. Non solo per la pericolosità del contagio, ma per la tenuta dei sistemi sanitari. La Germania è il caso più emblematico: centinaia di decessi, nonostante un sistema sanitario d’eccellenza. Ma è arrivato il momento di conteggiare altre categorie di vittime, oltre al fatto che dal numero di deceduti per coronavirus andrebbero sottratti o ponderati i deceduti, sopratutto anziani, per concause. Quanti sono stati, e quanti saranno nel breve tempo, i morti per tumori, infarti e a altre malattie croniche non curate in tempo e appunto «trascurate» in
questo periodo? Quante saranno le vittime della crisi economica, del dilemma «morire di fame o morire di virus»?
Domande rimaste finora sospese, mentre la comunicazione ansiogena e ossessiva sulla paura del contagio e sulle misure per arginarlo faceva scomparire dai radar tanti altri problemi: geopolitici, alimentari, ecologici e persino sanitari in relazione alle altre patologie. L’ansia ha influenzato la percezione collettiva del rischio, creato un consenso artificiale, un’autodisciplina della paura foriera di future esplosioni di rabbia e di comportamenti provocatori e incoscienti, come si è già visto con le movide nelle piazze più a rischio. La paura, distillata giorno dopo giorno, ha spinto milioni di individui a chiudersi in casa, a interrompere i contatti con i propri cari, a immaginarsi in smart working e anche in smart living. I più deboli o i meno informati tendono all’ossessione di Hughes, i più insofferenti o i meno responsabili (soprattutto giovani) a rigettarsi
nella mischia per un Aperolspritz, esattamente come quando superano i limiti di velocità e viaggiano senza cinture. E mentre si allungano code alle mense della Caritas e davanti ai negozi di biciclette, la politica torna a dividersi fra urgenze economiche e urgenze sanitarie, cominciando finalmente a fare prevalere le prime dopo avere fatto prevalere le seconde. La comunicazione ha però continuato ad essere ansiogena e confusa, anziché trasmettere un più tranquillizzante messaggio di responsabilità individuale e prudenza collettiva.
Di fronte a questa cacofonia si resta smarriti e impotenti, incapaci di scegliere per noi stessi e per i nostri cari. Il risultato è l’igienismo a modo suo, come si vede già oggi : mascherine di ogni tipo su naso e bocca, solo naso, appese al collo, infilate in tasca, appese al parabrezza, al chiuso e non all’aperto, sull’autobus e non in taxi.
Forse è il momento di chiedersi se una vita artificiale, a-sociale, virtuale,
mascherata, privata di contatti fisici, di strette di mano, di incontri sorprendenti, non assimigli tanto a una «non vita», come quella di Hughes. Forse è il momento di chiedersi se il rischio di vivere comporti anche una misura possibile, sostenibile, rischiosa della vita : migliorabile, ma non infinita. La reazione globale alla pandemia è stata anche un tentativo di negare questo rischio, una pretesa di A-mortalità determinata dal progresso scientifico, tecnologico, biologico (riservato peraltro a una sola parte del mondo) e messa a dura prova da un banalissimo virus. L’A-mortalità non è mai stata presa in considerazione nel corso dei secoli, durante epidemie molto più gravi e devastanti. L’igienismo ossessivo (che peraltro abbasserà nel tempo le difese immunitarie) ha messo sotto chiave il mondo intero, limitato la libertà, abolito la mobilità. Un paradosso, dal punto di vista del miliardario germofobico che aveva messo il mondo in aereo.