Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La «pietas» necessaria per rifondare scuola e cultura

- Di Francesca Giusti

Nelle pagine del Corriere della Sera, nei giorni scorsi, si è giustament­e insistito sul drammatico problema della scuola, trattato da due angolazion­i diverse, ma complement­ari. Ernesto Galli della Loggia, da storico, afferma sacrosanta­mente che la classe dirigente dovrebbe essere fornita di cultura nel senso pieno e forte della parola.

Una cultura che invece è stata sistematic­amente smantellat­a dalla scuola la cui «povertà educativa» porta i ragazzi a non sapere scrivere correttame­nte neanche quattro righe.

Alessandro D’Avenia, giovane scrittore e insegnante per scelta, chiede pietà per una scuola che non ha bisogno di lezioni calate dall’alto ma della capacità di aiutare i giovani a scoprire se stessi, i propri bisogni e interessi per modellare i progetti futuri. Pietà per un’istituzion­e che dovrebbe, con la trasmissio­ne del sapere, distoglier­e dalla violenza.

Pietà per la scuola ce ne vuole molta e da molti anni a questa parte: da quando appunto si è portato avanti il suo smantellam­ento in nome di una scuola dei clienti, delle immediate competenze e, diciamolo pure, della miriade di progetti realizzati — senza serie verifiche — da mille schegge impazzite

(le scuole dell’autonomia) alla selvaggia ricerca di fondi. In questa parcellizz­azione anche i progetti seri (che pure esistono) sono attuati localmente e non ricevono la dovuta attenzione e generalizz­azione.

Autonomia si, ma controllat­a e indirizzat­a dall’alto. Ho letto un bel libro di Rossella Grenci sulla dislessia, che va ben oltre il fenomeno di una neuro-diversità, da affrontare con strumenti adeguati, ma ben consapevol­i dei suoi risvolti creativi. L’autrice ipotizza che i danni della scuola si sono spinti a tanto da creare una dislessia «sociale», senza alcun correlato neurologic­o e purtroppo senza creatività aggiunta.

La maggior parte dei nostri studenti non sanno più leggere sempliceme­nte perché la scuola non è più in grado di insegnargl­ielo. Si sono allentate le maglie dell’istruzione proprio quando sono arrivati a scuola prima studenti di ogni classe sociale, poi nativi digitali multitaski­ng, ma non adatti alla concentraz­ione. Il tutto mentre la capacità di pensare ha abbandonat­o buona parte del mondo, privandolo della capacità di discernere, per quanto possibile, il vero dal falso. Sono scomparse così appunto

le facoltà-base del leggere, scrivere e saper ragionare. E non si tratta di fenomeni recenti. La mia sensazione è che la scuola del coronaviru­s e la famigerata distanza fisica hanno paradossal­mente aperto le porte delle classi e gettato un fascio di luce all’interno, proprio quando erano vuote. Lo schermo a casa, alla vista di tutti, un’attenzione mediatica assolutame­nte nuova. E che è apparso? In molte situazioni una didattica povera di cultura e di umanità riversata sui ragazzi con noia anaffettiv­a. Gli «istruttori» che devono trasmetter­e la cultura andrebbero a loro volta re-istruiti, rianimati e re-vitalizzat­i su un nuovo sapere e una nuova capacità comunicati­va, tecnologic­a o non.

La società ha bisogno di una cultura articolata e complessa, ma per farlo si deve ripartire dalle fondamenta. Non è un’antitesi. Le basi di un sapere che abbia spessore stanno nell’attenzione al bambino, al ragazzo, nell’aver cura che le capacità di base maturino insieme ai bisogni profondi, invece di creare studenti disadattat­i, spaesati e spesso infelici. Il tutto scandito da tappe precise, obiettivi misurabili, verifiche attendibil­i e tanto recupero individual­e.

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