Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La «pietas» necessaria per rifondare scuola e cultura
Nelle pagine del Corriere della Sera, nei giorni scorsi, si è giustamente insistito sul drammatico problema della scuola, trattato da due angolazioni diverse, ma complementari. Ernesto Galli della Loggia, da storico, afferma sacrosantamente che la classe dirigente dovrebbe essere fornita di cultura nel senso pieno e forte della parola.
Una cultura che invece è stata sistematicamente smantellata dalla scuola la cui «povertà educativa» porta i ragazzi a non sapere scrivere correttamente neanche quattro righe.
Alessandro D’Avenia, giovane scrittore e insegnante per scelta, chiede pietà per una scuola che non ha bisogno di lezioni calate dall’alto ma della capacità di aiutare i giovani a scoprire se stessi, i propri bisogni e interessi per modellare i progetti futuri. Pietà per un’istituzione che dovrebbe, con la trasmissione del sapere, distogliere dalla violenza.
Pietà per la scuola ce ne vuole molta e da molti anni a questa parte: da quando appunto si è portato avanti il suo smantellamento in nome di una scuola dei clienti, delle immediate competenze e, diciamolo pure, della miriade di progetti realizzati — senza serie verifiche — da mille schegge impazzite
(le scuole dell’autonomia) alla selvaggia ricerca di fondi. In questa parcellizzazione anche i progetti seri (che pure esistono) sono attuati localmente e non ricevono la dovuta attenzione e generalizzazione.
Autonomia si, ma controllata e indirizzata dall’alto. Ho letto un bel libro di Rossella Grenci sulla dislessia, che va ben oltre il fenomeno di una neuro-diversità, da affrontare con strumenti adeguati, ma ben consapevoli dei suoi risvolti creativi. L’autrice ipotizza che i danni della scuola si sono spinti a tanto da creare una dislessia «sociale», senza alcun correlato neurologico e purtroppo senza creatività aggiunta.
La maggior parte dei nostri studenti non sanno più leggere semplicemente perché la scuola non è più in grado di insegnarglielo. Si sono allentate le maglie dell’istruzione proprio quando sono arrivati a scuola prima studenti di ogni classe sociale, poi nativi digitali multitasking, ma non adatti alla concentrazione. Il tutto mentre la capacità di pensare ha abbandonato buona parte del mondo, privandolo della capacità di discernere, per quanto possibile, il vero dal falso. Sono scomparse così appunto
le facoltà-base del leggere, scrivere e saper ragionare. E non si tratta di fenomeni recenti. La mia sensazione è che la scuola del coronavirus e la famigerata distanza fisica hanno paradossalmente aperto le porte delle classi e gettato un fascio di luce all’interno, proprio quando erano vuote. Lo schermo a casa, alla vista di tutti, un’attenzione mediatica assolutamente nuova. E che è apparso? In molte situazioni una didattica povera di cultura e di umanità riversata sui ragazzi con noia anaffettiva. Gli «istruttori» che devono trasmettere la cultura andrebbero a loro volta re-istruiti, rianimati e re-vitalizzati su un nuovo sapere e una nuova capacità comunicativa, tecnologica o non.
La società ha bisogno di una cultura articolata e complessa, ma per farlo si deve ripartire dalle fondamenta. Non è un’antitesi. Le basi di un sapere che abbia spessore stanno nell’attenzione al bambino, al ragazzo, nell’aver cura che le capacità di base maturino insieme ai bisogni profondi, invece di creare studenti disadattati, spaesati e spesso infelici. Il tutto scandito da tappe precise, obiettivi misurabili, verifiche attendibili e tanto recupero individuale.