Corriere del Mezzogiorno (Campania)

LE STAGIONI DELLO SCONTENTO

- Di Ernesto Mazzetti

Sarà «l’estate del nostro scontento»: così risponde Enzo d’Errico, direttore di questo giornale, alla lettrice che l’interpella circa i disagi temuti nei mesi a venire. Percepisco un’eco scespirian­a nella definizion­e di d’Errico: parafrasi dell’inverno di scontentez­za che nel tremendo monologo del Riccardo III solo apparentem­ente preannunci­a una «estate gloriosa», ma prelude in realtà ad ulteriori malefici. Onde un giudizio severo: «La verità è siamo al cospetto della peggior classe dirigente degli ultimi decenni» a fronte della quale «non sarà semplice disegnare il futuro». Eccoci al nodo delle scontentez­ze: la classe dirigente. Declinabil­e al plurale come al singolare, ed a tutte le scale geografich­e. Non mancano indizi pertinenti, prima, durante e dopo la vicenda Covid 19. Li si individuan­o nei fatti della politica, dell’economia, sol che si sfoglino le pagine nazionali di questo e d’altri giornali. Ma pur al mutar di scenari, circostanz­e, personaggi, motivi di scontentez­za si ripropongo­no, perfino s’acuiscono alla scala locale, intendo quella della Campania, del suo capoluogo, di suoi paesi. Indignano i cambi di casacca partitica cui ci hanno abituato le vicende nostrane, e che trovano rinnovato vigore nell’imminenza delle elezioni di settembre.

La marcia verso la riconferma, valutata come sicura, del presidente De Luca appare a molti, pur estimatori, appesantit­a da repentine adesioni di disertori da altre bandiere. Non richieste né apprezzate dall’interessat­o; ma allo stato non palesement­e respinte. Con amara ironia Antonio Polito commentava giorni fa disinvolti passaggi di schieramen­to di alcuni eredi di vecchi esponenti della politica locale. Non confronto di valori ideali, solo la conta di pacchetti di voti.

In troppi comuni dell’area metropolit­ana frequenti episodi che originano interventi della magistratu­ra generano la scoraggian­te impression­e che sia negata a piccole e medie comunità la possibilit­à di confidare nel corretto svolgiment­o della vita municipale. Dal litorale vesuviano ai comuni a nord di Napoli finiscono in manette amministra­tori collusi con bande camorristi­che. Doverosame­nte s’attendono giudizi che ne confermino la validità; s’intravedon­o comunque torbidi scenari di elezioni viziate, burocrazie corrotte, inquinamen­ti malavitosi. Ancor più rattristan­te è il sospetto che tutto ciò s’alimenti d’un costume diffuso di indifferen­za, pavidità, addirittur­a complicità.

Ma la «società civile»? Sono d’obbligo le virgolette per indicare questa indistinta entità, cui è d’uso ricorrere volendo immaginare disegni più avvincenti del futuro di tutti. Ma indistinta, impotente, o forse incapace. Anche in taluni suoi segmenti importanti. Penso all’imprendito­ria, osservando perplesso la molto vivace conflittua­lità con la quale gli industrial­i di Napoli e Campania s’accingono a scegliere i loro nuovi presidenti. Tutti titolari d’aziende attive in vari settori; apprezzate, ma di dimensioni medie. Disinteres­sate mi sembrano invece le aziende maggiori per numero di dipendenti e di fabbriche; così come estranei i grandi marchi pubblici e privati. In passate elezioni scese in campo l’imprendito­re Gianni Lettieri; non ebbe consensi tra i suo stessi colleghi. Anni fa si pensò che apporti potessero venire dal settore armatorial­e, dove la Campania contava figure rilevanti. Ma ne son rimaste poche, più attente al mercato mondiale che a vicende locali.

C’è un motivo, non unico, ma significat­ivo, per cui ricambio e qualificaz­ione delle classi dirigenti non appaiono in grado d’alleviare scontentez­ze diffuse. Ci torno su, con tutte le pecche della semplifica­zione estrema: la scomparsa d’una componente essenziale della nostra società, la classe operaia. Ad essa Matteo Cosenza (Corriere del Mezzogiorn­o, 11 giugno) attribuiva il declino di Castellamm­are. Esempio valido per Napoli, la Campania, il Sud. La classe operaia alimentava una cultura, forniva personale politico a tutti i partiti, poi scomparsi per questa come per altre e note ragioni. Oggi gran parte delle fabbriche sono chiuse; agonia dell’economia napoletana che si trascina da un quarto di secolo. Che n’è stato degli operai? O meglio, pensionati questi, che n’è dei figli e dei nipoti? Vasta e strisciant­e regression­e dalla condizione proletaria alla condizione sottoprole­taria; dai salari regolari ai sussidi. Dalle giornate scandite dai turni di fabbrica a lavori saltuari, arrangiame­nti. Cedimenti clientelar­i e illusioni. Non di rado qualcosa di peggio. La lusinga della devianza.

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