Corriere del Mezzogiorno (Campania)
LE STAGIONI DELLO SCONTENTO
Sarà «l’estate del nostro scontento»: così risponde Enzo d’Errico, direttore di questo giornale, alla lettrice che l’interpella circa i disagi temuti nei mesi a venire. Percepisco un’eco scespiriana nella definizione di d’Errico: parafrasi dell’inverno di scontentezza che nel tremendo monologo del Riccardo III solo apparentemente preannuncia una «estate gloriosa», ma prelude in realtà ad ulteriori malefici. Onde un giudizio severo: «La verità è siamo al cospetto della peggior classe dirigente degli ultimi decenni» a fronte della quale «non sarà semplice disegnare il futuro». Eccoci al nodo delle scontentezze: la classe dirigente. Declinabile al plurale come al singolare, ed a tutte le scale geografiche. Non mancano indizi pertinenti, prima, durante e dopo la vicenda Covid 19. Li si individuano nei fatti della politica, dell’economia, sol che si sfoglino le pagine nazionali di questo e d’altri giornali. Ma pur al mutar di scenari, circostanze, personaggi, motivi di scontentezza si ripropongono, perfino s’acuiscono alla scala locale, intendo quella della Campania, del suo capoluogo, di suoi paesi. Indignano i cambi di casacca partitica cui ci hanno abituato le vicende nostrane, e che trovano rinnovato vigore nell’imminenza delle elezioni di settembre.
La marcia verso la riconferma, valutata come sicura, del presidente De Luca appare a molti, pur estimatori, appesantita da repentine adesioni di disertori da altre bandiere. Non richieste né apprezzate dall’interessato; ma allo stato non palesemente respinte. Con amara ironia Antonio Polito commentava giorni fa disinvolti passaggi di schieramento di alcuni eredi di vecchi esponenti della politica locale. Non confronto di valori ideali, solo la conta di pacchetti di voti.
In troppi comuni dell’area metropolitana frequenti episodi che originano interventi della magistratura generano la scoraggiante impressione che sia negata a piccole e medie comunità la possibilità di confidare nel corretto svolgimento della vita municipale. Dal litorale vesuviano ai comuni a nord di Napoli finiscono in manette amministratori collusi con bande camorristiche. Doverosamente s’attendono giudizi che ne confermino la validità; s’intravedono comunque torbidi scenari di elezioni viziate, burocrazie corrotte, inquinamenti malavitosi. Ancor più rattristante è il sospetto che tutto ciò s’alimenti d’un costume diffuso di indifferenza, pavidità, addirittura complicità.
Ma la «società civile»? Sono d’obbligo le virgolette per indicare questa indistinta entità, cui è d’uso ricorrere volendo immaginare disegni più avvincenti del futuro di tutti. Ma indistinta, impotente, o forse incapace. Anche in taluni suoi segmenti importanti. Penso all’imprenditoria, osservando perplesso la molto vivace conflittualità con la quale gli industriali di Napoli e Campania s’accingono a scegliere i loro nuovi presidenti. Tutti titolari d’aziende attive in vari settori; apprezzate, ma di dimensioni medie. Disinteressate mi sembrano invece le aziende maggiori per numero di dipendenti e di fabbriche; così come estranei i grandi marchi pubblici e privati. In passate elezioni scese in campo l’imprenditore Gianni Lettieri; non ebbe consensi tra i suo stessi colleghi. Anni fa si pensò che apporti potessero venire dal settore armatoriale, dove la Campania contava figure rilevanti. Ma ne son rimaste poche, più attente al mercato mondiale che a vicende locali.
C’è un motivo, non unico, ma significativo, per cui ricambio e qualificazione delle classi dirigenti non appaiono in grado d’alleviare scontentezze diffuse. Ci torno su, con tutte le pecche della semplificazione estrema: la scomparsa d’una componente essenziale della nostra società, la classe operaia. Ad essa Matteo Cosenza (Corriere del Mezzogiorno, 11 giugno) attribuiva il declino di Castellammare. Esempio valido per Napoli, la Campania, il Sud. La classe operaia alimentava una cultura, forniva personale politico a tutti i partiti, poi scomparsi per questa come per altre e note ragioni. Oggi gran parte delle fabbriche sono chiuse; agonia dell’economia napoletana che si trascina da un quarto di secolo. Che n’è stato degli operai? O meglio, pensionati questi, che n’è dei figli e dei nipoti? Vasta e strisciante regressione dalla condizione proletaria alla condizione sottoproletaria; dai salari regolari ai sussidi. Dalle giornate scandite dai turni di fabbrica a lavori saltuari, arrangiamenti. Cedimenti clientelari e illusioni. Non di rado qualcosa di peggio. La lusinga della devianza.