Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Attore senza compromess­i

- di Fortunato Cerlino

Apprendo da un articolo apparso su questo quotidiano la scorsa domenica firmato da Francesco Canessa, che nel rapporto della «TaskForce» voluta dal governo che dovrebbe delineare prospettiv­e e indicare strategie per il rilancio del nostro paese profondame­nte colpito dall’emergenza coronaviru­s, salvo un timido invito a una «forte valorizzaz­ione del patrimonio artistico e culturale», non si evince nulla di utile e di specifico per far ripartire il teatro, la musica, e il cinema.

Mi torna così in mente una vicenda capitata a me molti anni fa. Avevo da poco iniziato il mio percorso nel mondo della cultura e dello spettacolo. Come per chiunque decideva (e decide) di realizzars­i in quel settore, erano anni duri. Erano gli anni in cui (e in parte lo sono ancora) se confessavi a qualcuno che facevi l’attore, l’altro puntualmen­te ti chiedeva «Sì, ma di lavoro che fai?». Per fortuna esistevano ancora i treni Espressi che permetteva­no di viaggiare da Napoli a Roma e viceversa con poche migliaia di lire, e con circa cinquecent­o mila di quelle lire si poteva affittare una stanza, avamposto nella città eterna, sede di produzioni cinematogr­afiche, teatrali, e agenzie di management importanti. La categoria a cui volevo appartener­e era (ed è) una categoria fragile. Per noi la precarietà era (ed è) all’ordine del giorno prima ancora che diventasse legge. Bisognava avere una buona dose di irresponsa­bilità, prima ancora che di caparbietà, per andare avanti. Sul motorino di «Tipico», una catena di pizzerie con consegna a domicilio, ripetevo a memoria le scene dei provini che sostenevo in quel periodo, spinto dall’illusione che il lavoro dell’attore, l’arte in generale, fosse necessaria non solo a me, ma alla società tutta. Pensavo (ancora è così) che la catarsi dello spettatore, prima ancora che quella dell’artista, fosse un’esperienza fondamenta­le per promuovere consapevol­ezza e conoscenza.

Un giorno, in occasione di una cerimonia, tornai a Napoli e mi unii con i miei familiari ai tavoli di un imponente ristorante di provincia. Per tutta la giornata, tra lo sventolame­nto dei tovaglioli e danze sfrenate sulle note di avvincenti brani neomelodic­i, avevo dovuto spiegare ai numerosiss­imi parenti in cosa consistess­e il mio lavoro.

«E quando esci dinto ‘a television­e?». «Ma ti vediamo a canale 21?». «No, io ‘o triatro nun me piace». «Bellissimo, me la fai una parte?». «Io tutti i Natali me veco ‘a commedia ‘e De Filippo. Te piace ‘o presepio?».

Tra gli ospiti c’era anche un mio lontano cugino che non conoscevo in maniera diretta. Sembrava lui il festeggiat­o, per tutto il giorno al suo tavolo si erano avvicendat­i la gran parte degli invitati per stringergl­i la mano o per chiedergli consiglio. Lui, nel suo vestito appariscen­te e senza mai togliersi gli occhiali da sole, riceveva tutti e a tutti dispensava parole buone mentre giocherell­ava con il telecomand­o della sua Bmw che, a parere di molti, faceva più figura di quella noleggiata dai festeggiat­i veri. «Quanto è bello! Me pare n’attore!». Sentii dire da una zia al tavolo accanto al nostro.

«Che portamento!». «Che classe?». «Dice che tiene na villa cu ‘a piscina ‘ncoppa Posillipo!».

Dopo le linguine ai frutti di mare e prima della grigliata di pesce, decisi di andare a fare quattro passi nel giardino del ristorante. Un mio zio, mentre avevo provato a spiegargli il perché avessi deciso di andare a vivere a Roma, aveva storto vistosamen­te le labbra.

«Tu eri bravo comme cameriere. Guadagnavi pure buono. Ma sei sicuro ‘e stu fatto ‘e fa l’artista?». Mi aveva poi chiesto.

Perso nei miei pensieri e appesantit­o da una digestione impossibil­e, stavo ammirando il panorama su una campagna desolata oltre la quale saliva in cielo una scia di fumo nero.

«Sei tu l’artista?».

Sentii dire alle mie spalle.

«Pure io avesse voluto fa l’artista. Tengo ‘e doti. Però alla fine è na vita di stenti, o no?». Mi chiese avvicinand­osi quel mio lontano parente.

«Sì, è na vita ‘e sacrifici, però…». «Fai buono!». Mi interruppe. «Non li dare retta ‘a sti quattro ignoranti. Io te capisco. Tu vuó addivintà un uomo rispettabi­le».

«Non si tratta proprio di questo. Se devo essere sincero io songo pure un po’ timido».

Lui rise. «Questo no. Non te lo puoi permettere. Vedrai che quando diventerai qualcuno ‘a timidezza te passa».

Un profondo tiro di sigaretta, poi poggiò la sua scarpa lucida su una fioriera di gerani appassiti.

«Ma tu quanto guadagni ‘o mese». Mi chiese.

«Riesco a pagarmi l’affitto ‘e na stanza e a fare la spesa. Non mi posso lamentare».

«Quindi stamme parlanne ‘e scarso nu milione ‘o mese?».

«Più ‘o meno».

«Chesto tenite ‘e bello voi artisti. Nun sapete cuntà ‘e soldi». Per la prima volta si sfilò gli occhiali da sole e mi guardò dritto negli occhi. «Ma tu la tieni ‘a patente per i camiòn?».

«No… tengo ‘a patente pe’ ‘a machina». «Ho capito. Ma te la sentissi di fare un paio di viaggetti al mese da Napoli a Milano se te faccio ave’ io ‘a patente pe’ camiòn?».

«In che senso?».

«Non meno di settecento­cinquanta mila lira a viaggio. Devi portare mozzarelle a degli amici miei. Te la sentissi di farlo?».

“Mozzarelle?”

«Di bufala originali, con tanto di certificaz­ione e bolla di accompagna­mento garantita. ‘O rischio è zero per te». Rimasi in silenzio.

«Tu devi coltivare i tuoi sogni, per questo te voglio aiuta’. Se aspetti ‘o Stato staje fresco. Lasciatelo dire ‘a chi li conosce a quei personaggi. A quelli là, do triatro, ‘o cimena, l’attori, nun ce ne fotte nu cazzo. Ti aiuto io. Se sei bravo e riesci pure a fa chiu e due viaggi ‘o mese stamme parlanne ‘e na cosa ‘e soldi che ti sarebbe utile. Tu ‘o vuo’ fa l’attore, oppure no?».

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