Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Disobbedienza «civile» e non
Scosso dagli incidenti avvenuti in piazza Bellini, mi sono messo a pensare alla disobbedienza civile, tema sul quale è stato scritto molto e detto moltissimo.
È impietoso fare paragoni tra le diverse disobbedienze civili che la Storia mostra. Ma Pietà e Storia non sono mai andate d’accordo. L’ironia invece è socievolissima, si adatta a quasi tutte le circostanze della vita e la satira, infine, ha il potere di amalgamare ogni cosa, di farla lievitare come un additivo alimentare.
Sono il figlio di un disobbediente: papà era un operaio, combatté sui boschi della Toscana contro i fascisti, patì la fame in tempo di guerra e la disoccupazione in tempo di pace. Comunista e sindacalista, vide marchiarsi sulla propria pelle (e quindi anche sulla mia) le conseguenze di codeste sue qualità: licenziamento e pesanti disagi familiari.
Mio nonno materno fu pure disobbediente: anziché obbedire preferì fare la staffetta tra la città e i boschi, portando notizie e qualcos’altro ai partigiani. Trucidato dai nazifascisti, lasciò moglie e tre figli piccoli in assoluta povertà.
Io invece sono obbediente: ho sempre studiato e ho sempre chinato il capo davanti all’Autorità, della serie «Il Capo ha sempre ragione».
Il mio ambito lavorativo
esprime una fetta di cultura nazionale e internazionale piuttosto distante da quella che si respira nei centri sociali e in generale nella attuale società italiana. La musica classica è tradizionalmente una musica di nicchia, ma in altri paesi è apprezzatissima e studiata dai giovani.
Sono un fortunato obbediente: non ho combattuto nascondendomi nei boschi e non sono mai stato disoccupato.
Il mio idolo è Johann Sebastian Bach: tutti pensano che sia stato un mite servo di Dio e invece no, Bach era un ribelle disobbediente: gli si chiedeva di lavorare in ambiti che non gli erano congeniali? protestava e disobbediva. Gli si impediva di lasciare un posto di lavoro per prenderne uno dalla migliore retribuzione? Protestava, disobbediva, andava in galera e scontava la pena.
Bach credeva in sé stesso, aveva una missione da compiere e cioè far rivivere forme musicali vetuste come la Fuga. Era una specie di attivista del Wwf: salvaguardava le specie in estinzione dando loro nuova vita. Grazie a lui e alla resurrezione della Fuga, Beethoven compose ciò che compose, e poi gli altri, fino ai nostri giorni.
La musica è l’unica forma d’arte che si esprime nel presente, non ha passato né futuro, tutto si compie in quel momento e, quando finisce, siamo di nuovo preda dei nostri pensieri: dobbiamo scegliere se obbedire o disobbedire, se abbracciare un’etica o limitarci ad una vita estetica.
La musica classica mi fa dimenticare, per la durata della Sinfonia, l’annosa questione dell’obbedienza. Alla fine mi convinco che ascoltare una sinfonia di Beethoven o una Cantata di Bach sia un atto di disobbedienza civile in sé: viviamo immersi in un tale conformismo culturale dominato dall’immanente, invasiva, proterva e onnipotente industria del consumo canzonettistico che rifiutare codesto dominio e ascoltare altro è ormai una forma di disobbedienza civile.
La disobbedienza non dovrebbe marciare da sola: il singolo che disobbedisce è ridicolo.
Ma anche Bach era solo. Non sono refrattario all’associazionismo, al partitismo, all’ideologismo; è solo che aver letto alcune pagine dedicate ai Jivaros mi ha segnato profondamente. Costoro – bellicosa popolazione equadoregna – sono convinti che ogni volta che uno della loro tribù muore, fosse anche per la puntura di un’ape, qualcuno debba sempre e comunque assumersene la responsabilità; per cui, celebrato il funerale, vanno a caccia del presunto colpevole – solitamente un membro della popolazione rivale distante molti chilometri – e finché non l’hanno ucciso non si danno tregua.
Sono un obbediente e non amo quel tipo di resistenza disobbediente armata di telefonino nella mano destra e Spritz nella mano sinistra. Sono semmai legato alla disobbedienza di Pier Paolo Pasolini: costui disprezzava i giovani e spesso benestanti studenti che, esteticamente immersi in una presunta disobbedienza, inveivano contro il poliziotto facendo finta di non sapere che il poliziotto non è altro che un lavoratore assai mal pagato per i rischi che corre ogni giorno.