Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La violenza familiare che l’era Covid ci ha svelato
Violenza domestica e Covid-19 hanno molti tratti in comune. Sono due pandemie (l’hanno sancito l’Oms e la Commissione Donne dell’Onu) e come tali si comportano nello stesso modo: ci si difende dalla loro diffusione interponendo delle distanze, mentre si rischia stando troppo vicini. È un dato di fatto, però, che proprio il lockdown, il massimo del «distanziamento sociale», ha determinato un’impennata della violenza sulle donne, con il numero di chiamate ai Centri antiviolenza salito del 600%. La spiegazione è semplice: il lockdown ha realizzato il sogno di tutti i violenti, blindare la propria vittima in casa.
Di questo ha parlato l’affollato seminario online dal titolo «La nuova frontiera della consulenza psicologica nei casi di violenza sulle donneIl Protocollo Napoli», che si è svolto mercoledì scorso.
E come mai nei servizi, nei tribunali, nelle questure, è difficile ammettere che quando una donna denuncia una violenza -consapevole di dover affrontare un iter giudiziario lungo e faticoso, che comporta spesso minacce perché ritiri le proprie dichiarazioni, per mettere tutto da parte «per il bene dei figli», come se il bene dei figli potesse mai conciliarsi con l’esistenza di un padre violentolo fa a ragion veduta e non per ritorsione? Il pregiudizio sull’inattendibilità delle denunce delle donne in fase separativa e nei contenziosi per l’affidamento dei figli è resistente, anche se è smentito da studi internazionali che dimostrano che le «false denunce» rappresentano una minima percentuale sul totale.
Il terzo punto che il Protocollo Napoli affronta, e su cui la discussione è stata molto vivace, è stato quello della vittimizzazione secondaria, da parte delle istituzioni preposte alla tutela, con la penalizzazione delle madri che denunciano partner e padri per violenza.
E veniamo alle Consulenze tecniche nelle cause per l’affidamento dei figli. La Convenzione di Istanbul diventata legge dello stato nel 2013 ma spesso ignorata nei tribunali,
impone il distanziamento tra autori e vittime di violenza. La parola d’ordine, quindi, è sempre «distanziamento», perché l’incontro con l’aggressore nuoce alle vittime (inclusi i bambini) costituendo, come minimo, una costrizione a rinunciare al diritto di autotutelarsi da qualunque evento possa riportare a galla i traumi subiti. I molti relatori che hanno animato la discussione - dalla ministra Elena Bonetti alla senatrice Valeria Valente presidente della Commissione femminicidio, dai presidenti degli Ordini degli Psicologi e degli Assistenti sociali, la presidente del Consiglio nazionale forense e degli Avvocati, da magistrati come Paola di Nicola, giudice penale, e Raffaele Sdino presidente di Sezione Civile-Famiglia, dalle psicologhe promotrici del protocollo Arcidiacono, Bozzaotra, Ferrari Bravo, Reale e Ricciardelli a tanti altri, coordinati da Silvia Mari dell’Agenzia Dire hanno concordato sulla positiva innovazione introdotta dalle linee guida del Protocollo Napoli. Ed è emersa anche la necessità di monitorare, studiando i casi, quei processi in cui nel determinare l’affidamento dei figli non si tiene conto delle denunce di violenza nella coppia supportate da prove e testimonianze, consentendo che padri violenti non solo mantengano la responsabilità genitoriale, ma addirittura abbiano i figli in affido esclusivo.
Una distorsione del diritto-dovere alla genitorialità che, invece di proteggere, danneggia i bambini, cui si consegna una visione del mondo in cui non c’è sanzione per chi aggredisce e minaccia, ma c’è invece l’obbligo di piegarsi allo status quo.
E senza lamentarsi, pena l’affido a una casa famiglia. E qui si apre un discorso, che non può esaurirsi in poche righe, sia sugli interessi in gioco sia sul ricorso a metodi coercitivi e traumatici usati per allontanare i bambini, con lo scopo dichiarato di «resettare» il minore, tagliando i suoi legami con il genitore con cui ha vissuto (in genere la madre) e con la sua rete sociale. Argomento scottante e attuale -come testimoniano i tanti casi venuti alla ribalta negli ultimi anni, con bambini trascinati via da casa dalle forze dell’ordine, traumatizzati per sempre- che riporta al tema delle consulenze tecniche «infedeli», o solo sbagliate, basate su «sindromi» e «disturbi» (la famigerata Pas e simili) mai riconosciuti dall’Oms né contemplati nei testi scientifici. Questo tipo di consulenze, in cui le testimonianze dei bambini sono osservate attraverso una lente alterata, avallano provvedimenti di decadenza dalla responsabilità genitoriale ingiustificati, fino ai collocamenti «punitivi» in comunità e case famiglia. Ciò che è emerso dal seminario, in definitiva, è una domanda di trasparenza sul lavoro dei consulenti tecnici in materia di violenza. È per questo che è necessario assumersi responsabilità, anche scomode, al fianco delle madri e dei bambini nei momenti di maggiore fragilità del percorso giudiziario, a difesa dei loro diritti.