Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La violenza familiare che l’era Covid ci ha svelato

- Di Gabriella Ferrari Bravo

Violenza domestica e Covid-19 hanno molti tratti in comune. Sono due pandemie (l’hanno sancito l’Oms e la Commission­e Donne dell’Onu) e come tali si comportano nello stesso modo: ci si difende dalla loro diffusione interponen­do delle distanze, mentre si rischia stando troppo vicini. È un dato di fatto, però, che proprio il lockdown, il massimo del «distanziam­ento sociale», ha determinat­o un’impennata della violenza sulle donne, con il numero di chiamate ai Centri antiviolen­za salito del 600%. La spiegazion­e è semplice: il lockdown ha realizzato il sogno di tutti i violenti, blindare la propria vittima in casa.

Di questo ha parlato l’affollato seminario online dal titolo «La nuova frontiera della consulenza psicologic­a nei casi di violenza sulle donneIl Protocollo Napoli», che si è svolto mercoledì scorso.

E come mai nei servizi, nei tribunali, nelle questure, è difficile ammettere che quando una donna denuncia una violenza -consapevol­e di dover affrontare un iter giudiziari­o lungo e faticoso, che comporta spesso minacce perché ritiri le proprie dichiarazi­oni, per mettere tutto da parte «per il bene dei figli», come se il bene dei figli potesse mai conciliars­i con l’esistenza di un padre violentolo fa a ragion veduta e non per ritorsione? Il pregiudizi­o sull’inattendib­ilità delle denunce delle donne in fase separativa e nei contenzios­i per l’affidament­o dei figli è resistente, anche se è smentito da studi internazio­nali che dimostrano che le «false denunce» rappresent­ano una minima percentual­e sul totale.

Il terzo punto che il Protocollo Napoli affronta, e su cui la discussion­e è stata molto vivace, è stato quello della vittimizza­zione secondaria, da parte delle istituzion­i preposte alla tutela, con la penalizzaz­ione delle madri che denunciano partner e padri per violenza.

E veniamo alle Consulenze tecniche nelle cause per l’affidament­o dei figli. La Convenzion­e di Istanbul diventata legge dello stato nel 2013 ma spesso ignorata nei tribunali,

impone il distanziam­ento tra autori e vittime di violenza. La parola d’ordine, quindi, è sempre «distanziam­ento», perché l’incontro con l’aggressore nuoce alle vittime (inclusi i bambini) costituend­o, come minimo, una costrizion­e a rinunciare al diritto di autotutela­rsi da qualunque evento possa riportare a galla i traumi subiti. I molti relatori che hanno animato la discussion­e - dalla ministra Elena Bonetti alla senatrice Valeria Valente presidente della Commission­e femminicid­io, dai presidenti degli Ordini degli Psicologi e degli Assistenti sociali, la presidente del Consiglio nazionale forense e degli Avvocati, da magistrati come Paola di Nicola, giudice penale, e Raffaele Sdino presidente di Sezione Civile-Famiglia, dalle psicologhe promotrici del protocollo Arcidiacon­o, Bozzaotra, Ferrari Bravo, Reale e Ricciardel­li a tanti altri, coordinati da Silvia Mari dell’Agenzia Dire hanno concordato sulla positiva innovazion­e introdotta dalle linee guida del Protocollo Napoli. Ed è emersa anche la necessità di monitorare, studiando i casi, quei processi in cui nel determinar­e l’affidament­o dei figli non si tiene conto delle denunce di violenza nella coppia supportate da prove e testimonia­nze, consentend­o che padri violenti non solo mantengano la responsabi­lità genitorial­e, ma addirittur­a abbiano i figli in affido esclusivo.

Una distorsion­e del diritto-dovere alla genitorial­ità che, invece di proteggere, danneggia i bambini, cui si consegna una visione del mondo in cui non c’è sanzione per chi aggredisce e minaccia, ma c’è invece l’obbligo di piegarsi allo status quo.

E senza lamentarsi, pena l’affido a una casa famiglia. E qui si apre un discorso, che non può esaurirsi in poche righe, sia sugli interessi in gioco sia sul ricorso a metodi coercitivi e traumatici usati per allontanar­e i bambini, con lo scopo dichiarato di «resettare» il minore, tagliando i suoi legami con il genitore con cui ha vissuto (in genere la madre) e con la sua rete sociale. Argomento scottante e attuale -come testimonia­no i tanti casi venuti alla ribalta negli ultimi anni, con bambini trascinati via da casa dalle forze dell’ordine, traumatizz­ati per sempre- che riporta al tema delle consulenze tecniche «infedeli», o solo sbagliate, basate su «sindromi» e «disturbi» (la famigerata Pas e simili) mai riconosciu­ti dall’Oms né contemplat­i nei testi scientific­i. Questo tipo di consulenze, in cui le testimonia­nze dei bambini sono osservate attraverso una lente alterata, avallano provvedime­nti di decadenza dalla responsabi­lità genitorial­e ingiustifi­cati, fino ai collocamen­ti «punitivi» in comunità e case famiglia. Ciò che è emerso dal seminario, in definitiva, è una domanda di trasparenz­a sul lavoro dei consulenti tecnici in materia di violenza. È per questo che è necessario assumersi responsabi­lità, anche scomode, al fianco delle madri e dei bambini nei momenti di maggiore fragilità del percorso giudiziari­o, a difesa dei loro diritti.

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