Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Quel carteggio nel ricordo di de Berardinis
Sulla strada del tramonto, arrivo oggi alla tappa significativa degli 80 anni. E intanto, sempre più spesso, vado interrogandomi sul senso e sui risultati (se ne ha prodotti) del mio rapporto col mondo del teatro, che non ho scelto di frequentare e che pure frequento ormai da oltre mezzo secolo. Forse può darmi qualche risposta un breve «carteggio» (che, s’intende, assumo a titolo puramente e decisamente simbolico) fra me e l’attrice Elena Bucci.
Elena lavorò al fianco di Leo de Berardinis in tutti i suoi più importanti spettacoli. Immediatamente, quindi, nel settembre scorso manifestai l’intenzione di andare a vederla, quando lei annunciò Lettera al mondo, la performance che avrebbe presentato nell’ambito della sezione «Alveare» del Contemporanea Festival promosso a Prato dal teatro Metastasio. E altrettanto immediatamente le chiesi che me ne mandasse il testo. Né mi feci scoraggiare quando mi disse che si trattava di una cosa piccolissima, solo una ventina di minuti, a titolo di prova, in merito a uno spettacolo ancora da definire.
Non so quante volte mi era capitato di osservare che, per comprendere appieno un artista, occorre prestare attenzione al suo percorso, verificandone la coerenza. Così come, non meno frequentemente, avevo sostenuto la necessità di dar luogo a un teatro che faccia parte della nostra vita. E in Lettera al mondo sentii – sulla traccia dell’alta lezione di Leo - un eco fortissimo di quei concetti e di quelle convinzioni, tale che non le potei dedicare un commento se non alla luce del passo dei Diari di Friedrich Hebbel che al riguardo mi sembra determinante: «Recitare in teatro significa in definitiva solo: vivere in fretta, eternamente in fretta! Recensire un attore significa dunque recensire il corso della vita di un uomo».
Pubblicai quel commento sul mio sito Controscena.net il 27 settembre. E il 30 mi raggiunse da parte di Elena la seguente email: «Carissimo Enrico, ho aspettato che arrivassero le parole giuste per dirti quanto il tuo scritto sia per me profondo e sapiente, pieno di cultura vera e di umanità, ma non arrivano mai quelle che vorrei e così mi rassegno ad usare quelle che ho. Per trovare i giusti accenti dovrei poterti abbracciare e restare a lungo a parlare di quei fantasmi del passato affettuosi e potenti che continuano a mandarci messaggi attraverso la memoria e di quelle luci indistinte che vediamo all’orizzonte e che ci regalano ogni giorno il coraggio. Ti tengo accanto come un maestro di ascolto e di sguardo, come uno di quei compagni che rendono la vita dolce e degna di essere celebrata. Ti abbraccio e ti chiedo perdono per questa familiarità che potrebbe invadere il giusto riserbo di un critico e di uno studioso rigoroso quale sei, ma l’ondata di emozione è più forte della ragionevolezza e sento più che mai la forza della nostra famiglia teatrale».
Poi, in riferimento alla serie di articoli che andavo pubblicando qui sotto il titolo «Questi fantasmi!» (erano dedicati, come forse qualcuno ricorderà, a Eduardo De Filippo, a Carmelo Bene e all’esule greco Michalis Lilis), il 9 aprile scorso Elena mi scrisse: «Caro Enrico, ti mando dalla Romagna un abbraccio forte, grato, fraterno. Penso a te come un amico il cui sguardo mi accompagna fin da quando ero ragazza, sempre lucido nel distinguere l’opera dalla persona. Pensare a te è pensare anche a Napoli, un luogo del cuore che mi si è rivelato le prime volte come un turbine, un teatro continuo e imprevedibile, come un urlo. Restavo incantata ad ascoltare una telefonata, qualcuno che parlava per strada, non per spiare o per curiosità, ma per godermi la lezione di ritmo e intonazione. Ricordo bene come Antonio Neiwiller, in tournée con noi per Totò Principe di Danimarca o I giganti della montagna di Leo, spesso al Nord, avesse l’abitudine di consolarsi elencando i piatti che avrebbe mangiato alla trattoria La campagnola in cima alla salita di San Gregorio Armeno. Quando ci andai la prima volta, prima che si rinnovasse, fu come un pellegrinaggio. In replica a Napoli avrei voluto il tempo di camminare, scoprire gli angoli e i volti, fermarmi ad ogni pasticceria per fare la classifica della sfogliatella frolla. Oggi che il tempo si slaccia, Napoli galleggia lontana. La corsa della quale sentivo la schiavitù e lo schiaffo, si è fermata di colpo lasciandomi spettinata e piena di domande, in una clausura creativa che si anima di presenze, ricordi, racconti. Padrona all’improvviso del tempo e del pensiero - ma da quanto tempo non pensavo più davvero, ma soltanto reagivo agli eventi? – cerco chi sono e da dove viene la mia stirpe, la cui voce antica sento distinta nel silenzio della casa. Vedo il pianeta con uno sguardo nuovo, misuro la nostra incapacità ma non mi arrabbio, ascolto. Tu scrivi che nella tua reclusione sei assediato e invaso da fantasmi che cerchi di placare raccontandoli. Ti domandi cosa sono i ricordi: nelle tue mani sono racconto, pietre preziose, quel ricostituente antico e buono che si prende a cucchiai, diventano squarci che si aprono su vite altrui, come se entrassimo nelle case, nei camerini, nei teatri, mi trasporti verso mondi e mari che io non vedrò mai, le mie vite si moltiplicano. E poi ricordare insieme, anche ricordi diversi, rende fratelli, scioglie la commozione. Si aprono porte, palazzi, giardini, intrichi di strade buie, abissi. Si intravede la moltitudine che da lontano saluta, o canta: nomadi, viaggiatori, girovaghi, gente di teatro e di avventura, chi va sul palco e chi ne scrive. Tutto questo è grazie alla tua sapienza, alla tua esperienza, che però mi ha sempre incantato per il tuo stupore commosso. Come nell’infanzia vai in cerca della nuova scoperta senza fermarti di fronte a nulla. Avanti, sempre. Tu sei sempre spuntato all’improvviso, facendo lunghi viaggi faticosi, per esserci, per vivere quella serata unica, per essere certo di farne un’esperienza originale tutta tua da poter poi raccontare agli altri, proprio in virtù della sua autenticità, non certo per presenzialismo, ma perché la passione, la curiosità ti guidano, senza secondi fini, senza ascoltare pareri e tendenze del gregge, libero come sei di muovere le antenne e il passo verso il luogo dove senti un sospetto di arte.
Non posso dimenticare certi abbracci, le poche solide parole, a sipario appena calato, tutti storditi e commossi dallo spettacolo finito, tu e noi. Hai sempre avuto la vista lunga di chi sa unire il sapere e l’istinto, che si ascolta poco e non sbaglia quasi mai. Hai avuto intuizioni che precedevano i miei pensieri, come quando mi avvisasti che volevi venire a Prato per vedere i primi venti minuti di uno spettacolo che, ora lo vedo, mi accompagnerà a lungo. Io mi stupii che tu volessi assistere a quella piccola cosa e invece vedevi più in là di me.
Non apro il sipario sugli anni di Leo, ma ti scrivo che sarebbe proprio importante farlo. Cominciare dai lampi del ricordo, dai bagliori, dai luoghi, dai profumi. Sarebbe bello trovare un luogo quieto dove domande, risposte, ricordi trovassero il loro spazio scritto.
Adesso che l’incontro è negato, mi accorgo quanto siano state poche le occasioni di scambio e di reciproco racconto tra noi, ma anche tra tutti coloro che si occupano di teatro, di arte. A volte per l’affanno degli impegni, i viaggi, le distanze, a volte per una sorta di riservato pudore, nonostante la corrente che ci unisce tutti, un legame da tribù allacciato dalle stesse passioni e vocazioni. Così ora arrivi puntuale a soddisfare il desiderio più intimo e vero, quello di stare in ascolto delle storie.
Sembrano favole e sono vere, per la capacità che hai di farne epica con il tuo sguardo che collega, coglie, immagina e con la scrittura che ci prende per mano, ci dà gli strumenti per viaggiare e poi diventa isola dove possiamo sostare. I fantasmi sanno bene chi devono andare a tormentare, con dolcezza, spiritosi, mai rancorosi.
Scrittrici e scrittori sono stati tirati per i piedi perché rompessero gli indugi e tornassero alla penna che ci salva. Questo tuo omaggio ai fantasmi ha la potenza dei grandi gesti rituali che spesso la fretta dei tempi recenti ci ha con violenza sottratto, mentre invece ne abbiamo una necessità vitale. Sentire il racconto delle vite e delle gesta narrate da chi sa usare le parole con cuore, cervello e generosità è una grazia che fa cadere le pareti delle stanze e trasforma il mondo passato - e presente e futuro in un grande palcoscenico di meraviglie. Scrivere di fantasmi insegna - e ricorda - quanto sia dolce guardare dentro il tempo, dentro le cose, gli altri, quelli che eravamo e saremo, con trepidazione, affetto, senza paura».
«Sarebbe importante aprire il sipario su quegli anni. Cercare un luogo in cui i ricordi trovino il loro spazio scritto»