Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Quello struscio nella città del Nord
Per anni, nella città del Nord, Marco ha assistito al passeggio domenicale, per il lungo corso alberato, di ex operai della Feroce (la Fabbrica implacabile per ritmi e disciplina).
Erano piccoli di statura, a meno che non influisse una distorsione percettiva: forse sembravano rimpiccioliti anche dal loro essere stati accantonati rispetto al processo produttivo (la prima grande ristrutturazione della Feroce negli ‘80, poi quelle a seguire). Il loro passaggio aveva luogo, fino a qualche mese fa, proprio sotto il balcone di Marco. Incanutivano ogni anno in modo impercettibile. Di fisso rimanevano la loro pigmentazione scura, il loro procedere a gruppetti. Avanti e indietro, avanti e indietro. Gesticolavano, riaffermavano il loro essere in vita, discutevano dunque in modo animato. Di che cosa? Marco, incrociandoli per strada o orecchiando dalla balconata, aveva censito come temi portanti: politica, spese condominiali, sport con particolare riferimento al calcio. Il rotolare della palla, il rotolare della vita, la palla rotonda dalle traiettorie imprevedibili come le donne, la Fortuna è femmina. La Fortuna è femmina... In quanto tale quei capannelli di uomini anziani la consideravano come un libro chiuso. Infatti non si accapigliavano mai circa le donne in genere, fossero attrici, star o ragazze che incedevano con il loro sedere alto, le gambe slanciate. Marco aveva fatto l’abitudine a questa assenza nei loro discorsi. Moralismo da nati in campagna e inurbati solo a vent’anni? Forse a quei gruppetti di affiatati ex compagni di lavoro per dirsi tutto l’essenziale bastava un ammicco delle palpebre, un sospiro più profondo. Segni inavvertiti a chi non fosse dei loro, come Marco. O forse, chissà, valeva il vecchio, lapidario adagio siculo: omo sissantinu lascia la fimmina e pigghia lu vino.
Tuttavia nessuno di loro sembrava un beone, tranne un vicino di casa che dopo il prepensionamento aveva preso l’andazzo di avvinazzarsi fra le quattro mura (una sbornia asociale, cattiva). Per il resto quegli uomini con la coppola, infagottati nei loro cappotti scuri un tempo nuovi, procedevano negli anni e sullo stesso marciapiede con ritualità. Marco, in vena di fare l’antropologo, considerava quella ripetitività come necessaria per ricreare la via principale di un paesino meridionale. Il corso dove consumare lo struscio domenicale, il giornale ripiegato sotto braccio, in attesa che le mogli tornassero dalla messa e fosse pronto in tavola (i figli e le nuore e i nipoti tardavano, si sa come sono scombinati i giovani). Cosicché quei piccoli uomini scuri ingannavano l’appetito spolmonandosi, con una gestualità che gli zuccheri bassi esasperavano. A volte sembrava che bisticciassero, che quasi dovessero venire alle mani. Tutto si scioglieva in una risata corale, la nostra teatralità mediterranea. Marco, dal balcone, non è che ne restasse deluso. Qualcosa, però, lo indispettiva. Così diventava acre e ingiusto, com’era a volte nel suo carattere. «Ma come avete fatto?», diceva da lontano al passaggio di quegli uomini, «da ragazzi, giù, avevate un’anima. L’avete venduta alla Feroce, che si è sbarazzata di voi con un calcio nel sedere. E adesso?».
Adesso quegli ex operai perseveravano nel macinare gli stessi due, trecento metri per cinquantadue volte l’anno per l’ennesimo anno. Si sgranavano a gruppetti nella nebbiolina a mezz’aria in attesa del mezzogiorno, chiusi nei loro dignitosi cappotti e con l’anima espiantata, cinquant’anni prima, dalla Feroce. L’anima – e questo Marco lo sa bene – vuol dire il rombo dei cavalloni sulla spiaggia, i cieli marini, l’aria dalle vibrazioni volubili del Mediterraneo. Tuttavia loro, in apparenza, non sembravano farci caso. Piccoli di statura, dunque poco soggetti ad incurvarsi, conservavano una loro dirittura, con la forza e l’incapacità di guardarsi dietro, di guardarsi ai lati.
Poi da fine febbraio sono spariti. La Grande Chiusura ha imposto il proprio ordine, un comando ancora più inflessibile di quello che, un tempo, vigeva alla Feroce. Per tutto l’inverno Marco si è affacciato ai vetri gelidi sul lungo corso popolato solo di alberi scheletriti. Un paio di volte ha nevicato, quest’ultimo marzo. Spolverate di poche ore capaci, però, di atterrire Marco come se si fosse materializzato il giorno dei funerali di Mozart, come lui li ha sempre fantasticati con gli occhi vitrei. Un crollo di fiocchi nevosi fitti come quel giorno dietro la bara di Mozart, pochi dolenti neri e un paio di cani...
«Io non sono Mozart», si ripeteva Marco, «Io non sono nessuno, ma non voglio diventare una particella del Tutto che poi significa il niente. Non voglio diventare nebbia e quindi poltiglia, dopo che mi avranno conficcato un tubo nella trachea e sarà comunque andata male».
La cosa più difficile, in presenza di un grande flagello, non è tanto scamparla quanto il venirne fuori integro. Probabilmente Marco si è salvato guardandosi bene dal guardare ai lati, proprio come quegli ex operai che fino a Febbraio fingevano di trovarsi nel paesone. E così, la domenica prima di pranzo, procedevano imprecando, ridendo, animandosi con brevi scoppi di risate. Guardare avanti. Alla tua destra e alla tua sinistra si apre l’abisso, il baratro se ti volti all’indietro. Se non vuoi smarrire il sentiero, perciò, guarda avanti. Dopo marzo arriverà aprile, poi forse maggio.
E io non voglio morire cazzo, si ripeteva Marco. Ho l’età che ho, ma ad essa bisogna levare gli anni del buco nero, quello scavato per accompagnare prima mia madre, poi mio padre nella fossa. Dunque, fatta la sottrazione, sono poco più che cinquantenne. In fondo respiro meglio oggi di quando, da giovane, patii una breve asma nervosa. In ogni caso ancora desidero: in modo meno forsennato di allora, ma con maggiore sottigliezza e senso estetico. In ogni caso traguardo avanti. Voglio tornare almeno altre due volte a Venezia, annusare l’odore salmastro in quelle chiese. Voglio stringere quella donna in un lento, ballabile capogiro sulla terrazza di un albergo sul Golfo. And so on... Così è giunto maggio, poi come ogni volta giugno. Il morbo ha preso un passo affaticato e nuovamente, la domenica, alcune pattuglie di ex operai si muovono. Sembrano esploratori in avanscoperta; indossano le mascherine, anche se non sarebbe obbligatorio. Tuttavia lo fanno per quell’antico senso di disciplina sociale, inculcato tanto dal Partito che dalla Feroce. Sappiamo che non nevicherà più, almeno fino a novembre.
Il loro passaggio aveva luogo proprio sotto il balcone di Marco Incanutivano ogni anno in modo impercettibile
Di fisso rimanevano la loro pigmentazione scura, il loro procedere a gruppetti Avanti e indietro, avanti e indietro