Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Sergio Rubini «Eduardo non è solo Napoli, ma è nel Dna degli italiani»
Il regista premiato all’Ischia Film Festival: cerco volti napoletani per interpretare i tre fratelli De Filippo
«Il mio film sui De Filippo lo girerò a Napoli all’inizio di settembre. La sceneggiatura è il frutto di un lavoro di tanti anni di studio e di sudore, mio, di Carla Cavallucci e Angelo Pasquini, cosceneggiatori e dei produttori Agostino e Maria Grazia Saccà». A parlare è Sergio Rubini, omaggiato ieri con un premio alla carriera, nella serata d’apertura del 18° Ischia Film Festival, diretto da Michelangelo Messina.
Come mai un pugliese come lei si è interessato alla vicenda dei De Filippo?
«Negli anni Sessanta, ero ancora un bambino e mio padre mi portò al Teatro Piccinni a Bari a vedere Eduardo che interpretava “Sabato, domenica e lunedì”. Non ricordo bene lo spettacolo, ma che mio padre, al termine dello spettacolo, mi teneva in braccio e mi sollevava, per applaudirlo. Eduardo poi l’ho visto tante volte a teatro, ho sempre amato il suo teatro. Ho debuttato, poi, a sedici anni, in una compagnia filodrammatica, recitando il personaggio di Nennillo di “Natale in casa Cupiello”. Eduardo non è solo Napoli ma è nel Dna degli italiani e della mia famiglia».
Cosa la affascinava della loro storia familiare?
«Erano tre ragazzi che appartenevano ad una famiglia, apparentemente minore, che poi, invece, sono riusciti, con la forza del proprio talento, tenacia e abnegazione, a ribaltare il loro destino. Hanno affermato il loro cognome, che costituiva la loro ferita,
” Qui c’è la capacità d’ironizzare sulla sofferenza, si arriva oltre e con leggerezza si impara a vivere la vita
perché era quello della madre, e soprattutto sono riusciti a imporre una grande rivoluzione nel teatro, ad affrancarlo dalla matrice ottocentesca, ereditata del teatro paterno, e a rivolgerlo ad uno sguardo più realistico, al punto che Eduardo lo si può considerare tra i padri del Neorealismo».
A quale periodo della loro vita si riferirà?
«Ho ristretto l’arco narrativo dal 1925, quando muore Scarpetta, il loro padre naturale, che in eredità non gli lasciò nulla, se non il talento, al Natale del ’31, anno della loro prima rappresentazione al Kursaal di Napoli. Descriverò gli anni della formazione del trio e racconterò anche quelle ferite, che poi, nel corso degli anni cresceranno, fino al punto da farli dividere».
Ha già scelto il cast?
«No, ma sono alla ricerca di tre giovani venticinquennitrentenni. Il panorama teatrale dei giovani napoletani è vastissimo e confido che riuscirò a trovare tre talenti».
Fellini dichiarava che veniva a Napoli a prendere le sue «facce» perché i volti dei napoletani sono il risultato «geologico» di una sovrapposizione di storie e di avvenimenti, soprattutto dolorosi e sono abituati ad avere quel distacco da se stessi.
«Sono assolutamente d’accordo anche se, questa della “stratificazione geologica della sofferenza”, è tutta meridionale. Nel napoletano c’è però anche la capacità di ironizzare sulla sofferenza, fino ad arrivare addirittura oltre. Nel volto del napoletano c’è, infatti, la sofferenza, ma anche la leggerezza e quindi un insegnamento su come vivere la vita».
E lei ha già lavorato con tanti colleghi napoletani, da Salemme a Orlando, da Carpentieri al giovane Di Leva alla Golino.
«Ho cominciato nel lontano ‘82 con Tato Russo. Quindi, il teatro napoletano e la napoletanità sono bene impresse nella mia storia professionale e umana».