Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Napoli e i monumenti possibili
Se il convitato di pietra della famosa opera mozartiana scendesse oggi dal suo piedistallo per portare all’inferno Don Giovanni, con tutta probabilità arriverebbe al suo appuntamento coperto già di sputi e di vernice rosa. Sono tempi duri per le statue. Ma da dove arriva questa nuova furia iconoclasta? Qualche esagitato pone questioni di morale retroattiva. È sempre successo, fin dai tempi di Leone III Isaurico imperatore bizantino. Per cui non dovremmo sorprenderci. Eppure stavolta c’è qualcosa di diverso. E riguarda il nostro rapporto col concetto di monumento.
Anni fa, assieme a Eva Franch i Gilabert, direttrice della Association of Architecture britannica, in una conferenza tenutasi a New York, analizzammo a fondo la profonda distanza linguistica che ormai separa la nostra società dalle ragioni politico-culturali che nei secoli passati avevano dato origine alla forma-monumento. Il paternalismo feudale che tendeva a proporre modelli d’emulazione non nelle idee, ma negli uomini, nei secoli ha prodotto, attraverso il culto della persona, un consolidamento delle dinastie che ambivano a mantenere il potere. Questo sistema, con l’avvento della democrazia novecentesca, è andato in crisi. L’individuo singolo, orfano di titoli e blasoni, con la sua esile sagoma bronzea su un blocco di pietra, ha iniziato ad apparire troppo esile, decisamente inadatto per un’epica eroica buona per i tempi dei cavalieri, in cui la leggenda valeva più della verità. L’ultimo a resistere sui piedistalli, coi suoi busti e i suoi faccioni di bronzo è stato Mussolini, ma appunto nella ripetizione ennesima di una storia antica divenuta farsa.
Così, nel secondo Novecento la produzione di statue si è diradata. Pochi pezzi, di solito periferici, quasi mai commissionati ad artisti di valore che – di fronte all’inattualità dell’oggetto – avrebbero certamente declinato la proposta.Che i molti principi, re, reggenti o cavalieri del passato fossero, in larga parte, dei farabutti, lo sappiamo da sempre, in fondo. Non avevamo certo bisogno che ce lo venissero a dire gli americani con le loro proteste di queste settimane. Se ci fosse importato davvero qualcosa li avremmo tirati giù da un pezzo. Invece li abbiamo lasciati lì a confondersi con l’ambiente, a sparire con la dimenticanza. La ragione per cui proprio oggi cominciamo a non tollerarli più è che non ci sembrano più nostri, sono il simbolo di una società che non ci somiglia più, una società patriarcale, analfabeta. Penso sia anche per questo che la statua di Montanelli a Milano abbia attratto tanto sdegno. Quell’oggetto artisticamente insignificante, era fuori tempo, pallida imitazione insensata di un costume finito abbondantemente fuori moda e tenuto in vita dall’approssimazione culturale delle amministrazioni comunali italiane. Probabilmente lo stesso Montanelli non lo avrebbe gradito. Quelli che conoscono il pensiero di un uomo, sia esso Hegel, Pasolini o Martin Luther King, non hanno bisogno oggi di statue che facciano il verso ai mille Padre Pio che spuntano nei vicoli. I loro scritti, i loro sistemi di pensiero ci dicono molto di più della loro effige. Una società scolarizzata, dunque, che se ne fa delle figurine? È questa incoerenza che oggi ci sta facendo rinnovare il guardaroba dell’arte pubblica dopo tanto tempo. E penso sia anche per questo che la contrarietà della soprintendenza riguardo l’ennesimo faccione di Jorit sia stata commentata favorevolmente dai cittadini che non ne possono più di queste espressioni semplicistiche di un analfabetismo culturale che non potendo arrivare ai contenuti si ferma alle vuote icone.
Il vero monumento di Pino Daniele è costituito dalla sua musica, il suo volto tigrato, su di un edificio di Nervi, non avrebbe potuto essere all’altezza delle sue poesie e armonie. Nella discussione americana che ho citato poc’anzi, alla fine, pur convenendo su queste premesse, le posizioni mie e della Franch erano opposte. Per lei monumenti non se ne sarebbero dovuti più fare. Per me, invece, avremmo dovuto domandaci quali fossero i monumenti adatti a questi tempi nuovi, a questa nuova civiltà.
E l’altra sera una specie di risposta mi è arrivata mentre passeggiavo nella Piazza Plebiscito lasciata vuota poche ore prima dal Pride. Da sotto Palazzo Reale osservavo il colonnato della Basilica di San Francesco da Paola, illuminato coi colori dell’arcobaleno. Quel simbolo, che accendeva la notte del sagrato, non rappresenta solo i diritti delle persone dai diversi orientamenti sessuali. Esso evoca molti dei valori che la parte migliore di noi condivide, i valori della pace e dell’uguaglianza tra gli uomini e le donne, la libertà d’essere sé stessi nel rispetto dell’altro. Nella Bibbia quei colori rappresentano la nuova alleanza tra l’Eterno e gli uomini dopo il Diluvio. Nella Genesi, l’arcobaleno nasce sulle ceneri di un mondo consumato dall’odio per annunciare l’alba di una nuova storia. Per cui di fronte a quella piazza iridescente, mi sembrava che un sentimento del futuro s’incarnasse ed esprimesse con decisione ed armonia attraverso un simbolo di rigenerazione, politica, sociale, umana. I monumenti nuovi sono così. Non figurine di latta, facce di uomini fallibili e defunti, ma forme capaci di sintetizzare idee immortali in cui riconoscersi. E così, in quell’immagine che con gentilezza, fondeva il nuovo e l’antico, mutando con l’impalpabilità della luce colorata l’algido colonnato della cattedrale, riconoscevo un vero monumento di questo tempo, oggi assai più vivo ed eclatante rispetto alle statue dei re angioini, aragonesi, borbonici e savoiardi che alle mie spalle recitavano la loro parte. Quell’accrocchetto volante di faretti sembrava rafforzare con un messaggio di profonda attualità, l’abbraccio che quel sagrato affacciato sul porto getta verso il mondo da due secoli.
Così riflettevo – e oggi lo faccio con voi, lettori - che varrebbe forse la pena di lasciarle quelle luci, sottraendole all’episodicità di una manifestazione e dandogli dignità di monumento permanente, capace di incarnare il pensiero di una città che non ha mai concepito l’idea di norma e ha sempre preferito quello di interpretazione, in cui le persone di orientamenti sessuali diversi e «in transizione», come si direbbe oggi, erano a casa qui fin dai tempi della Controriforma cattolica. La Napoli che è «mille colori», la Napoli cantata da Pino Daniele, forse, non è mai stata meglio rappresentata che in quella piazza il cui arcobaleno dovrebbe non spegnersi mai ed anzi splendere come un faro per tutti gli altri luoghi in cui i secoli bui non sono ancora finiti.