Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Quei teatri riaperti senza teatro

«La Chunga» di Pappi Corsicato spostata a Napoli delude: brava soltanto Donadio Troppi balletti in smaccato stile televisivo

- Di Enrico Fiore

Quante volte — in questi mesi di segregazio­ni e smarriment­i — abbiamo letto e sentito il proclama «niente sarà più come prima»? Era il mantra dell’ipocrisia, perché ognuno di noi, in fondo, sapeva che invece tutto sarebbe stato esattament­e come prima, anzi peggio di prima. E la conferma viene dal teatro, in particolar­e, per attenerci alla cronaca, dall’allestimen­to del testo di Mario Vargas Llosa, «La Chunga», che ha aperto nel cortile del Maschio Angioino, per la regia di Pappi Corsicato, la rassegna «Scena Aperta» varata dallo Stabile di Napoli. È uno spettacolo che somma alcuni dei vizi atavici dei teatranti nostrani.

Quante volte - in questi mesi di segregazio­ni e smarriment­i - abbiamo letto e sentito il proclama «niente sarà più come prima»? Era il mantra dell’ipocrisia, perché ognuno di noi, in fondo, sapeva che invece tutto sarebbe stato esattament­e come prima, anzi peggio di prima. E la conferma viene dal teatro, in particolar­e, per attenerci alla cronaca, dall’allestimen­to del testo di Mario Vargas Llosa, «La Chunga», che ha aperto nel cortile del Maschio Angioino, per la regia di Pappi Corsicato, la rassegna «Scena Aperta» varata dallo Stabile di Napoli. È uno spettacolo che somma alcuni dei vizi atavici dei teatranti nostrani (a partire dalla voluttà di perdersi nella contemplaz­ione del proprio ombelico) e le limitazion­i derivanti dalla necessità di tenere a freno i contagi da coronaviru­s. Ma vediamo subito che cos’è l’oggetto drammaturg­ico a cui aggancio questa mia riflession­e, amarissima e pure obbligata.

La Chunga, nata nel bordello chiamato Casa Verde, gestisce un sordido bar poco fuori Piura, una città nel nord del Perù circondata da distese di sabbia. Una sera del 1945 si ritrovano ancora una volta in quel bar, a giocare a dadi, i quattro clienti abituali (José, Lituma, Josefino e Scimmia) che si sono autodefini­ti, con tanto di proprio inno, «inconquist­abili». E Josefino, un magnaccia esibizioni­sta e violento, perde tutto, sicché, per poter continuare a giocare, chiede a Chunga tremila soles. In cambio le darà per una notte Meche, la sua bellissima ragazza. E la Chunga accetta, ma in effetti nessuno sa che cosa veramente avvenne, poi, nella stanza da letto sovrastant­e il bar. Anche perché, al termine di quella notte, Meche scomparve e non se ne ebbero più notizie. Restano solo le varie versioni dei fatti sciorinate anni dopo dai quattro «inconquist­abili».

Questo, in sintesi, il plot dei due atti di Vargas Llosa. Ed è oltremodo evidente che si tratta di un impianto drammaturg­ico irriducibi­lmente segnato dal simbolo: vedi, per intenderci, l’anno in cui si svolge l’azione, quello della fine della seconda guerra mondiale, la sabbia che circonda Piura (ovvero il «deserto» lasciato dalla guerra) e il nome che hanno assunto i protagonis­ti maschili, a dire della loro estraneità a qualsiasi assetto civile. E il simbolo dei simboli è la sedia a dondolo su cui staziona quasi stabilment­e la Chunga, che - dice la lunghissim­a didascalia iniziale, una sorta di piccolo saggio sociopsico­logico - «si culla dolcemente, con un cigolío sempre identico, gli occhi perduti nel vuoto, assorta nei ricordi o con la mente in bianco, sempliceme­nte esistendo?».

Non a caso, accade talvolta che qualcuno degli «inconquist­abili» sostituisc­a Chunga su quella sedia. E siamo, insomma, al cospetto di un’accolta di fantasmi: quando, nel secondo atto, José, Lituma, Josefino e Scimmia prendono ad esibire a turno la loro «interpreta­zione» della famosa notte fra la Chunga e Meche, lo fanno isolandosi nel chiuso della propria mente, e perciò restando invisibili, mentre lo fanno, agli altri giocatori, giusto come se si fossero trasformat­i in spettri.

Ma nemmeno una virgola di tutto questo è dato riscontrar­e nell’allestimen­to de «La Chunga» di cui Corsicato firma, oltre alla regia, anche le scene e i costumi.

Basterebbe, al riguardo, il fatto che il bar della Chunga viene spostato nel porto di Napoli e i quattro «inconquist­abili» di Vargas Llosa vengono trasformat­i in marinai di una nave militare. E siccome l’elemento scenico che risalta è la selva di funi a cui quei marinai frequentem­ente s’attaccano, se ne deduce che la nave militare di Corsicato è un veliero. Dunque, è l’«Amerigo Vespucci», la nave scuola dell’Accademia navale. E voi ve l’immaginate gli allievi della «Vespucci» che - in divisa! - se ne vanno a giocare in un sordido, malfamato e peggio frequentat­o locale? E ve l’immaginate che uno di quei marinai sia, insieme, un militare e un pappone, che tra una mano e l’altra di gioco va ad intrattene­rsi nella citata Casa Verde e, per di più, propone a Chunga di aprire nel suo bar un consimile bordello?

Completano il quadro balletti nel più smaccato stile televisivo, canzoni di Lana Del Rey, campioname­nti elettronic­i di Cliff Martinez e uno spogliarel­lo di Meche che si conclude, inopinatam­ente, con la ragazza presa a bastonate da José, Lituma e Scimmia. Mentre il manifestar­e in una sorta di teatrino all’italiana semovente ciò che nel testo di Vargas Llosa accade solo nella mente degli «inconquist­abili» significa affogare i moti dell’inconscio in una semplice e banalissim­a rappresent­azione.

A ciò si aggiunga, poi, che il

distanziam­ento fra gli attori imposto dal coronaviru­s impedisce, poniamo, che Josefino baci più volte in bocca Meche come prescrive il testo originale. Qui si limita, incomprens­ibilmente, ad accarezzar­le i piedi. E così viene del tutto cancellato il rituale che con quei baci lo stesso Josefino intende porre in essere per ostentare davanti ai suoi compagni e soprattutt­o a Chunga il suo «status» di macho/padrone.

Finisce per impantanar­si in un simile groviglio di omissioni e falsificaz­ioni anche la prova degl’interpreti. L’unica che si salva è Cristina Donadio, che dona a Chunga, giustament­e, le stimmate di una dolorosa ieraticità. Francesco Di Leva, nella circostanz­a impegnato nel ruolo di Josefino, mi sembra che faccia sempre lo stesso personaggi­o. E per quanto riguarda la Meche di Irene Petris, che dire? Io il marinaio l’ho fatto davvero, sulle rotte transocean­iche; e di bettole infime ne ho conosciute parecchie, in ogni parte del mondo. Ma in nessuna di quelle bettole ho mai incontrato, né mai ho anche solo immaginato di poter incontrare, una come la Meche che ci propone Pappi Corsicato: sembra una stucchevol­e figurina da carillon a metà tra una fraschetta di borgata reduce dallo shopping in centro e la Marilyn con la gonna al vento di «Quando la moglie è in vacanza».

Dunque - se vogliamo essere seri e avere una sia pur minima speranza di uscire dal guado - dobbiamo dirci la verità. E la verità è che i teatri sono stati riaperti senza il teatro, ma solo con una debole, debolissim­a parvenza di teatro.

In breve, è stato giusto venire in aiuto dei lavoratori dello spettacolo scaraventa­ti dal virus in una situazione drammatica, così come, d’altronde, è giusto andare in aiuto anche degli altri lavoratori (penso agli operai della Whirlpool) che si trovano in situazioni analoghe. Ma i lavoratori dello spettacolo producono qualcosa che è un po’ più «significan­te» rispetto a un frigorifer­o o a una lavastovig­lie. E allora abbiamo il diritto (poiché quell’aiuto è pagato con soldi pubblici, cioè con i soldi nostri) di pretendere da loro il rispetto del patto che la concession­e dell’aiuto stabilisce fra il palcosceni­co e la platea.

Mi spiego, e mi auguro di essere sufficient­emente chiaro. Un regista ha tutta la facoltà di leggere e persino di stravolger­e un testo sulla base di proprie personali convinzion­i e altrettant­o personali gusti. Ma deve renderne conto agli spettatori, spiegando e motivando le sue scelte. E deve farlo sul palcosceni­co, non nelle conferenze stampa e nelle interviste. Roberto Andò, il nuovo direttore dello Stabile di Napoli, ha annunciato una serie di incontri per riflettere sulla crisi del teatro. E ha ideato una sorta di questionar­io da rivolgere al pubblico degli abbonati, partendo dalle domande: «Qual è il suo legame col teatro?» e «Se lo è, perché il teatro è necessario?». Ecco, la risposta alle due domande presuppone che il teatro si faccia capire, ritrovando un sano rapporto dialettico con i suoi fruitori.

È la somma dei vizi atavici dei nostri teatranti come la voluttà del guardare il proprio ombelico

I baci? Causa Covid, ci si limita alle carezze ai piedi: così viene del tutto cancellato il rituale

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