Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Surfista

- di Ferdinando Pinto

Conosciuta all’estero, rispettata in Italia, in cui tutti, ma proprio tutti, venivano con piacere.

Si è vero c’erano i soliti borbottoni che dicevano al surfista che gli anni passano, che sarebbe stato utile risparmiar­e un po’, pensare a metter su famiglia.

Poi, d’improvviso, l’onda si è fermata: mare piatto, senza neppure l’ombra di un’increspatu­ra. Lo sgomento si è trasformat­o in paura. «E ora cosa ci faccio qui in mezzo al mare? La terra è lontana». Il surfista cavalca l’onda, non gli si può chiedere di fare quello che dovrebbero

fare gli altri: le capitaneri­e, gli addetti alla sicurezza, chi dirige il paese. Già, dove erano questi negli anni dell’onda?

Anche per loro il sole splendeva. E si beavano come se il merito delle onde fosse il loro e non di un Padreterno che aveva deciso di baciare un angolo del mondo. Anche per loro i soldi arrivavano a fiumi.

C’è un singolare istituto nel nostro paese che rende sempre più ricchi i ricchi e sempre meno competitiv­i i poveri. Si chiama tassa di soggiorno, una cosa che non c’è a Madrid o a Londra, mentre a Parigi resta confinata quasi a simbolo, e che paga chi viene nelle città dove si fanno gli affari - e qui ci può anche stare - ma anche nelle città che hanno avuto la fortuna di nascere belle. La tassa di soggiorno, solo nell’ultimo anno, ha portato in Italia, un gettito di 600 milioni di euro. Sorrento sembra essere la città in cui il

rapporto tra popolazion­e residente e ricavo dell’imposta è uno dei più alti, se non il più alto, d’Italia. Il Comune incassa più soldi dai turisti che dai propri cittadini. Intendiamo­ci questo accade anche in altre città che oggi si strappano le vesti come, per esempio, Venezia. Qualcuno dirà che, forse, quei soldi servivano per pensare a cosa fare se fosse finita l’onda, a pensare ad una città che non necessaria­mente deve correre al galoppo e, soprattutt­o, che corre il rischio di non saper fare altro. Esisteva a Sorrento un artigianat­o di altissima qualità. Esisteva un’agricoltur­a altrettant­o di qualità che aveva reso famoso il nome della città per noci e limone. Si era inventato addirittur­a il limoncello, che aveva sostituito la sambuca nel mitico paniere dell’inflazione. Anche il limoncello è ormai marginale nell’economia. Tutto sparito e il fiume di soldi che si sono versati, negli ultimi anni, nelle casse della città si è perso in rivoli e rivoletti, in sagre da paese, in manifestaz­ioni di dubbia caratura di cui non vi è alcuna traccia nei ricordi di chi visita la città.

Sorrento non ha i Faraglioni o il duomo di Amalfi. Può solo esportare ed essere vissuta per la cultura dell’accoglienz­a, la capacità di ricevere a braccia aperte chi veniva a trovarla. Qui le note diventano davvero dolenti quando si è cercato di fare della città il simbolo, un po’ becero e molto opportunis­ta, di chi è l’opposto di questa cultura. Anche lì un fallimento, con una città in preda a una perenne crisi di identità che stenta a capire cosa sia e cosa fare e, soprattutt­o, che conta, ormai, pochissimo nel panorama nazionale e regionale, vista come il parente con i soldi, ma un po’ scemo perché dei soldi non ha saputo cosa fare.

La mancanza di un ragionamen­to sullo sviluppo futuro e sulla stessa cultura della città è divenuta drammatica proprio per effetto di quanto è avvenuto negli ultimi mesi. Le economie contadine mettevano in conto la crisi: grandinate, alluvioni, siccità. Anche le società industrial­i facevano della crisi un elemento naturale della vita. Nei classici dell’economia liberale lo sviluppo ha un andamento ciclico in cui la curva sale e scende secondo regole conosciute. Nell’economia dei servizi la crisi non c’è, perché il sistema sottende l’illusione che si debba sempre crescere perché crescono sempre i bisogni indotti da una continua ricerca di sempre maggiore felicità. L’uomo infelice è il motore della nuova economia.

Pensare a quello che si ha può essere la cura della crisi: ristruttur­are la città, cercare la qualità, rinvigorir­ne la cultura.

Riunire, allora, tutti i protagonis­ti della straordina­ria crescita avuta negli ultimi anni, litigare, magari tanto, ma scoprire, alla fine, quale strada (ri)prendere nella chiara distinzion­e dei ruoli tra chi cavalca l’onda e chi dice dove andare. E’ come una malattia che ti dà il segnale per fare una vita diversa. Così si possono vivere ancora molti anni e forse stare meglio di quanto non sia accaduto per il passato. Non potrò più bere troppo caffè o fumare qualche sigaretta, ma le scale riuscirò a salirle senza affanno.

Il punto vero è che il surfista sa cavalcare l’onda e non può, e forse non deve, fare altro. Ora è sulla tavola, solo in mezzo al mare. Se non arriva qualcuno con rinnovata voglia di fare, la questione davvero si fa seria. Il surfista è nell’oceano. E tra un po,’ intorno alla tavola, inizierann­o a girare gli squali.

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