Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La «lezione» di Muti e Di Giacomo

- Di Francesco Canessa

Quando il maestro Riccardo Muti girando il mondo bacchetta in pugno si ritrova da queste parti, non manca di poggiarla sul leggìo per aggiungere alla musica un accattivan­te sermone.

Dettato dalla sua saggezza e orgogliosa italianità. Il pubblico l’aspetta, anche perché lo fa avvolgendo in una ironia tutta napoletana le pungenti provocazio­ni che rivolge ai suoi conterrane­i. L’ha fatto puntualmen­te anche a Paestum, in occasione del Concerto dell’Amicizia organizzat­o dal Ravenna Festival. «Noi musicisti non possiamo che volere l’armonia nella Società!» ha detto, lamentando che i governanti guardano, parlano, ma poco fanno perché la gente non muoia di fame, di malattie, di bombe. Monito concluso con l’auspicio che i musicisti siriani esuli accolti per l’occasione nella sua orchestra Cherubini, possano tornare in patria. Paestum è gemellata con Palmira, di qui lo spunto per guardare alla Siria. Ma il Concerto aveva avuto il giorno prima una «prova di assestamen­to» abbastanza corposa e semi-pubblica, per la presenza delle telecamere Rai e di alcuni allievi dei Conservato­ri della Campania. L’intervento è stato diverso, niente drammi, ma esaltazion­e della Grande Bellezza della Natura e dell’Arte: il sorgere della Luna piena dipingeva di colori diversi le colonne del Tempio di Nettuno e l’incanto dello scenario ha sopraffatt­o quello della Terza Sinfonia di Beethoven. Il direttore ha fermato l’orchestra invitando tutti a guardare quella meraviglia, mentre lui stesso ripeteva i primi versi di «Luna nova», la poesia di Salvatore Di Giacomo musicata da Mario Costa: «La luna nova ‘ncoppa a lu mare, stende ‘na fascia d’argiento fino…». Antica canzone, nata nel 1887 che racconta di un marinaio che dorme nella sua barca e che manco il raggio della luna riesce a svegliare, così che la rete resta tra le sue mani inoperosa. Ma il poeta chiede alla luna di perdonarlo, perché

sta sognando l’innamorata. La canzone ha una terza strofa, che nelle sue esecuzioni storiche non sempre compare, che cambia completame­nte atmosfera e il sonno del pescatore resta il pretesto per una polemica civile: «Comme a nu suonno de marenaro tu duorme Napule, viata a te! - Duorme, ma ‘nzuonno lacreme amare tu chiagne, Napule - Scetate, scè! - Puozze ‘na vota resuscità - Scetate,scè, Napule, Na’!». Ad aprire giusto all’indomani dell’evento di Paestum il maggior quotidiano della città, si leggevano pagina dopo pagina i seguenti titoli: «Disastro Centro storico: atto di accusa dell’Unesco», «Da Regione e Comune non ci sono piani: così il turismo muore», «Da Villa Ebe alla Metro, promesse mancate», «Comune: basta tirare a campare, il dissesto unica strada». A parte il Napoli che ha vinto, l’unico titolo positivo era «San Gennaro può battere anche la pizza» per annunciare che il culto del Santo ha le carte in regola per entrare nell’elenco Unesco dei Beni Immaterial­i. Muti ci ha azzeccato, forse senza volerlo, perché Salvatore Di Giacomo guardava lontano e La Luna Nova è sempre attuale: Napule scetate, Napule Na’!».

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