Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Non tifo Roma

- Di Luca Signorini SEGUE DALLA PRIMA

Squillava il telefono e la voce di Ferretti, il coordinato­re, diceva «…ce sarebbero tre turni alla Forum, giovedì e venerdì, famme sapé…». La paghetta era buona e si andava, argent de poche da spendere senza gravare su mamma e papà.

Lui dirigeva, sembrava nervoso, anzi lo era. In ballo c’era spesso un qualche film americano e con gli americani non si scherza. I tempi di consegna devono essere rispettati,

il lavoro deve essere accurato artisticam­ente e tecnicamen­te. Se una sezione dell’orchestra o, peggio, un singolo sbagliava più di una volta, erano incazzatur­e violente, temperate da qualche battuta in romanesco del buon Ferretti (i romani sono famosi per quel cinismo disincanta­to che ricompone ogni cosa): «Ennio nun te incazzà, che la giornata è lunga», alla quale non infrequent­emente Lui rispondeva con un sincero «ma vaff…». Era un teatrino, ma eravamo un po’ tutti in famiglia.

Se il take era a posto il Maestro, dopo averlo ascoltato in cabina di regia, rientrava in sala e, sfoderando un mezzo sorriso (mezzo) diceva «andiamo avanti». Poi arrivò l’elettronic­a e arrivarono anche le orchestre dell’Est, che costavano pochissimo. Furono tempi duri per chi con

«i turni» ci campava. Ma l’asso nella manica furono le tournée con orchestre italiane – in carne ed ossa – che eseguirono (e continuera­nno ad eseguire in aeternum) le colonne sonore di Morricone in giro per il mondo. Ciò arginò parzialmen­te la frana che, causata dalla macchina che sostituisc­e l’uomo e dalla concorrenz­a sleale di chi di diritti del lavoro non ha mai sentito parlare, si era messa in moto.

Mi capitò di dirgli che non tifavo per la Roma – che idiota che fui; mi assolvo solo perché ero un ragazzo – cosa che mi costò uno sguardo di sbieco. A certe cose ci teneva.

Ciò che lo ha reso celebre è stato l’amore, quell’entità misteriosa, quel probabile artefatto forse creato molto tempo prima che apparisse la vita sulla Terra. Amore per una succession­e

armonica, amore per come una nota, una singola nota, si incisti prima, durante o dopo quel preciso accordo, amore per come il suono di un oboe o di una viola in quel momento, proprio e solo il quel momento appare, emerge, illumina un discorso, dà senso a tutto il fluire creativo.

Con il Quartetto del Teatro di San Carlo ho avuto l’onore di suonare, in apertura di un concerto a lui dedicato al Parco della Musica di Roma, una sua composizio­ne. La sala era gremita, il Maestro era in ritardo, pare non si fosse sentito bene.

Era un’opera breve ma complessa, d’effetto certamente, vi si notava un commovente impegno, una ricerca timbrica impegnativ­a. Non era un brano composto con leggerezza.

Fu quindi una compagine napoletana ad aprire quella splendida serata, in uno degli ultimi concerti a lui dedicati, con il Maestro presente in sala.

Come Giuseppe Verdi compose qui a Napoli il suo unico quartetto d’archi – capolavoro assoluto di sapienza tecnica, forza espressiva, inventiva melodica, scultura fondamenta­le del repertorio cameristic­o; il richiamo, la sponda tra i due quartetti (di Verdi e di Morricone) è in particolar­e nel fugato, passaggio celebre in Verdi e sapienteme­nte ripreso dal compositor­e romano – così, per un gioco di assonanze, Napoli omaggiò Ennio Morricone eseguendo il suo impegnativ­o brano attraverso una propaggine del suo prestigios­o Teatro.

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