Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Ai democratici mancano un leader e il programma
Siccome le immagini contano più delle parole, guardiamo alla esibizione di potenza politica che ha offerto il Pd a Napoli nella due giorni di Agnano. Due ministri autoctoni, il rettore Manfredi e il giovane Amendola, un ministro del Mezzogiorno che viene dalla Svimez, dopo tanti anni uno che sa di che cosa si tratti. Un presidente della Regione «in office», e pare proprio destinato a restarci per altri cinque anni. In sala Antonio Bassolino, il miglior sindaco di Napoli dal dopoguerra insieme con Achille Lauro. Il potere, in una parola. E che cosa ha prodotto tutto questo potere? Un topolino, se mi permettete. Diciotto tavoli tematici e centinaia di pagine future di un ennesimo documento per Napoli.
Che Dio li maledica i tavoli tematici. Servono solo a sfuggire all’obbligo di una sola proposta, ma buona. Sono la cosa giusta per i convegni intellettuali, e si deve alla Leopolda la loro infausta irruzione nella vita politica. Per conto mio, non potendo più sperare nei congressi di un tempo, rimpiango le convention della seconda repubblica: almeno mettevano un leader e uno slogan in primo piano, e la gente capiva.
Né leader né slogan sembra avere ancora il Pd nel suo tentativo di riprendersi Napoli dopo la notte di de Magistris. Il sindaco con la bandana arriva alla fine della sua corsa come era prevedibile giungesse: spompato e svelato nella sua inconsistenza amministrativa. Il centesimo posto in Italia, riservatogli da una classifica del gradimento dei sindaci, è perfino troppo generoso con lui.
Il Pd avrebbe dunque la fortuna di poter lanciare lo sprint per le elezioni comunali nella migliore condizione: partendo dall’opposizione. E oltretutto potendo vantare una classe dirigente della quale si può dire ciò che si vuole ma, visto l’elenco di cui sopra, non che sia inferiore a quella che il centrodestra è riuscito ad accroccare in tutti questi anni in città, e neançhe a quella che esordì nei meet up dei Cinquestelle, con Fico e Di Maio, e che nella crisi del Movimento sembra essere precocemente abortita.
Ci si aspetterebbe quindi dal partito che rischia di vincere le elezioni una mossa. La promozione esplicita di una leadership lo sarebbe, se non ancora la formalizzazione. Si è detto nelle settimane scorse, quando si ipotizzava un voto congiunto tra Regione e Comune, che Enzo Amendola avrebbe potuto essere l’uomo giusto.
È possibile. Ma se lo era allora, perché non lo sarebbe più? O invece lo è? E si fa un gran parlare del rettore Manfredi, uomo di mille qualità, ma non è un politico, andrebbe sperimentato sul campo prima di lanciarlo, e per queste operazioni ci vuole il tempo necessario a diventare una figura popolare. Se non si comincia ora, quando?
In mancanza di una leadership ci si aspetterebbe almeno uno slogan, un’idea, una proposta (una) comprensibile e mobilitante (non cose tipo «piano urbanistico», «programma di sviluppo», e compagnia cantante). Potrebbe esserla, per esempio, la soluzione del «default» di bilancio, che sanzionerebbe definitivamente il fallimento di De Magistris e costituirebbe un po’ un «anno zero» da cui una nuova guida della città potrebbe ripartire. Ma, nonostante il dibattito divida il
Pd, quello metropolitano se ne dice contrario con la singolare ragione che «danneggerebbe l’immagine della città». Che è un po’ come dire che si intende continuare a spazzare la polvere sotto il tappeto. Oppure, se il default non convince, ci si aspetterebbe una proposta alternativa, per esempio una legge speciale per Napoli, che risani le finanze di questa sfortunata città e metta in campo un paio di politiche di incentivo fiscale e occupazionale per fare le cose che qui servono di più, risanamento e infrastrutture. Ma l’espressione «legge speciale» sembra un tabù sulla bocca dei Democratici. Come se avessero paura della polemica nordista che sicuramente ingaggerebbe la Lega. Ma quella stessa polemica consegnerebbe al Pd la guida di un «patriottismo» partenopeo che da Lauro a Bassolino fino a de Magistris è sempre risultato decisivo per vincere le elezioni.
D’altra parte sarebbe ora che la sinistra si decidesse a mettere da parte la paura di tutto ciò che è «speciale» o «straordinario». Fu una legge speciale per Napoli, la prima dello Stato unitario, a lanciare nel 1904 il «risorgimento economico» della città. Fu l’intervento straordinario nel Mezzogiorno, del quale quest’anno ricorrono i settant’anni dalla nascita della Cassa, a produrre i più grandi cambiamenti nella realtà urbanistica della capitale del Sud e nell’elevazione delle condizioni del vivere civile più rapida nella storia recente. E, al contrario, fu la nascita delle Regioni, esattamente cinquanta anni fa, a mettere di fatto fine alla stagione d’oro della Cassa, sulla base dell’idea che l’intervento pubblico da straordinario dovesse farsi ordinario. Credo che oggi si possa dire che le Regioni sono state un male per il Mezzogiorno, frantumandone l’interesse comune in una sciocca gara di nazionalismi regionali e dando vita a classi politiche locali di rapina, decisamente peggiori di quelle nazionali.
Questo insomma sarebbe il momento di agire. Il Pd ha uomini (due ministri), ha potere (è al governo a Roma), ha consenso (De Luca pigliatutto), potrebbe anche avere idee (il ministro Provenzano ne ha). Gli manca solo il coraggio. Ma, come si sa, chi non ce l’ha mica se lo può dare.