Corriere del Mezzogiorno (Campania)
GLI OCCHI DI CIRO, NON ALTRO
Chi si è permesso di chiamarlo Cira farebbe bene a chiedere scusa adesso. E trattandosi dei dirigenti di un’associazione dal nome altisonante come ArciLesbica Nazionale, avrebbe dovuto dimettersi già prima di ieri sera. Gli occhi di Ciro Migliore sono occhi di ragazzo entrati nelle nostre case e nei nostri cuori come un vento mai visto e mai sentito. Sono una cosa che scuote dentro anche noi avvezzi a tutto.
Ci abbiamo letto dolore, amore, rabbia, lo scippo di ogni sogno. Abbiamo solo potuto fare silenzio e pensare a Ciro e Maria Paola come a uno Shakespeare 2020, a un Romeo e Giulietta fermata Caivano. Dico «noi» intendendo buona parte di un’umanità magari smarrita e magari ignorante di certi fatti della vita, eppure ancora capace di sentire il dolore altrui. Quelli di ArciLesbica Nazionale no. Loro, sordi a ogni emozione, hanno pensato di approfittare del clamore mediatico per prendersi un pezzettino di notorietà nella folla di sigle della rappresentanza Lgbt. Per loro, Ciro non avendo fatto «il percorso» quindi ormoni, operazioni, cambio di nome all’anagrafe - resta Cira. Peggio ancora, quelli di ArciLesbica Nazionale sembrano volersi appropriare della tragedia dei due ragazzi: se Ciro è Cira e non un trans «certificato» «ftm», cioè da femmina a maschio, allora è femmina e lesbica e se ne deduce che siamo noi matti a chiamarlo Ciro e definirlo trans e che lui è un impostore che si spaccia per un ragazzo pronto ad «amare oltre le nuvole» la fidanzata persa per sempre. Lo sguardo ferito di Ciro è stato per milioni di italiani il primo incontro con un ftm. Ce ne sono tanti, ma non sono visibili né accettati come i trans mtf, maschi che diventano femmine. Con Ciro, fanno irruzione in certi orizzonti ristretti tutti i Ciro d’Italia e lo fanno con la forza della tragedia e di un’empatia difficile da non provare. Perciò, rispetto a due vite distrutte, è disumano che si discuta se questo martirio vada intestato alla causa transgender o a quella lesbica. Eppure, l’associazione in questione ha pubblicato un post su Facebook in cui spiega asetticamente che «la transessualità non si autocertifica, ci sono passi da fare ben precisi.
Il fatto al momento non smentito è che Cira Migliore ha documenti e corpo femminili, non ha mai iniziato alcun percorso di transizione. Hanno scritto che lo chiameranno Ciro solo se la sua transizione verrà ufficialmente rettificata. L’hanno scritto come se, da anni, altre associazioni ed esseri umani non lottassero proprio contro l’ottusità della burocrazia. Come se in questo Paese non stessero nel limbo 30mila persone in transizione verso un’altra identità o decisi a starsene nel mezzo, ma che comunque rivendicano di essere chiamati con un nome che corrisponda al sesso in cui si identificano. Molti alla fine del «percorso» non arrivano mai. Magari per paura di interventi chirurgici pesantissimi o per non dare una pena ai genitori anziani, per mille motivi, quasi sempre tormentatissimi. Wladimir Luxuria, nel 2018, ha raccontato che l’operazione lei non l’ha fatta, le fa troppo spavento. Eppure, nessuno si sogna di rivolgersi a lei come a un uomo. Un conto è la legge con i suoi diritti circoscritti e codificati, che almeno sono stati conquistati, un altro è la sensibilità. Quella, per chi ce l’ha, impone di saper guardare Ciro negli occhi e chiamarlo col nome che lui si sente di avere.