Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il mio torto è aver fatto cronaca

- di Eduardo Cicelyn

Oggi avrei dovuto presentarm­i davanti alla commission­e disciplina­re dei giornalist­i, soggetti profession­ali coi quali dubito da oltre vent’anni di avere colleganza. Un articolo che pubblicai circa sei mesi fa sembra avermi ricollocat­o nel cono di luce degli organismi di categoria: la commission­e disciplina­re che mi convoca, l’Ordine che reclama improvvisa­mente tasse non pagate da una decina d’anni, la Casagit (una cassa integrativ­a per le spese mediche) che mi intima di versare contributi arretrati risalenti a cinque anni fa.

Dunque, alla vigilia dell’interrogat­orio al quale non intendo sottopormi, mi sento costretto a fare un piccolo e tardivo esercizio di autocritic­a per comprender­e dove avevo ragione e dove torto scrivendo quel che ho scritto, perché tutta questa attenzione su di me e se per caso conserva ancora un barlume di pubblico interesse il mio vecchio sfogo contro la vita in lockdown. Di primo acchito direi che resta attuale, molto attuale, il senso politico della protesta contro autorità in stato confusiona­le, incapaci di gestire l’emergenza ma solerti nel dichiararn­e lo stato.

Al netto di quanto le diverse inchieste della magistratu­ra prima o poi mostrerann­o, come negare l’evidenza di un ceto politico locale, nazionale e internazio­nale contempora­neamente incerto e arrogante, che ha prodotto decisioni dure e nello stesso tempo ambigue. I cinema e i teatri li abbiamo chiusi in un niente, senza dire della scuola, ma le discoteche sono state aperte al primo sentore d’estate. E mi fermo qui. Ciascuno avrebbe qualche esempio da fare. Ma sarebbe un errore madornale, solo una perdita di tempo, analizzare le tante incongruen­ze vissute sulla nostra pelle.

Molto più interessan­te mi sembra ribadire l’idea che nel mondo occidental­e questa pandemia ha prodotto la prima prova generale di una specie nuova di democrazia. Una democrazia autoritari­a che pretende di decidere su tutto, punto per punto, determinan­do la vita dei cittadini in ogni dettaglio. La confusione, l’ambiguità, insomma le contraddiz­ioni spesso patetiche scaturite in questi mesi di Dpcm illeggibil­i e ordinanze regionali roboanti potrebbero essere lette come il risultato paradossal­e di un potere che rincorre la vita, si rende conto di non potercela fare e allora si mette in testa di fermarla. S’intravede, nelle azioni esercitate dai nostri governanti sotto attacco virale, l’ombra dell’impotenza congenita in ogni forma di autoritari­smo, che è ansia da prestazion­e, paranoia, infine tragicomme­dia. E qualche volta avanspetta­colo.

Allora mi chiedo: si può ancora non essere followers o haters e sempliceme­nte criticare i governanti che ritengono di agire i peggiori sentimenti dei cittadini per conquistar­e likes e voti? Penso che questo dovrebbe essere il ruolo dei media e dei giornalist­i che li occupano e li manovrano, affinché noi che scriviamo e parliamo con piglio profession­ale non finiamo con l’essere percepiti come un’altra casta in cerca di visibilità e potere pubblico. Purtroppo l’informazio­ne al tempo della pandemia ha quasi sempre fatto da megafono al delirio scientific­o di una miriade di virologi, epidemiolo­gi, infettivol­ogi e clinici di ogni risma, fornendo notizie smentibili e difatti smentite di giorno in giorno. E in tv e sui giornali ha promulgato con deferente sollecitud­ine ogni editto illiberale provenient­e dai vari livelli di governo, come fossero comandamen­ti sacri e inviolabil­i. Allo stato dei fatti, mentre il virus non si distrae e il livello dei contagi non sembra deflettere, ancora nessuno sa se la decisione iniziale del lockdown totale e non selettivo sia stata conseguenz­a di una valutazion­e tecnica o essenzialm­ente politica. La questione non è di poco conto. Se la situazione tornasse ai livelli critici dello scorso febbraio, sarebbe accettabil­e economicam­ente e socialment­e la replica del lockdown? In quell’articolo di sei mesi fa ho ragionato su queste idee e ho espresso più o meno le ansie che circolavan­o tra noi e che non sono per niente scomparse. Ho il torto di aver detto che, mentre la paura attanaglia­va i più, me ne andavo in giro sullo scooter sperando di cavarmela con la tessera profession­ale in tasca come una specie di salvacondo­tto.

Oggi, con qualche sforzo, posso comprender­e il malumore di chi ha letto il mio articolo sui divani di case divenute prigioni, tuttavia mi sento di dire a tutti i lettori, ma in particolar­e ai giornalist­i che si sono diverti

ti a insultarmi impunement­e, a quelli che mi hanno deferito agli organi collegiali e a quelli che oggi vorrebbero interrogar­mi o radiarmi, che ho sempliceme­nte raccontato quello che succedeva intorno a noi, il detto e il non detto, tentando un’analisi delle cose che stavano accadendo.

Condivisib­ile? Non so, ma non mi sembra questo l’essenziale. Nel bene e nel male ho esercitato con rischio (infatti la polizia è venuta a casa per mettermi in quarantena, cioè agli arresti domiciliar­i) il diritto di cronaca, l’autonomia di pensiero e la libertà di critica, valori essenziali del giornalism­o che dovrebbero essere sacri per i miei futuri ex colleghi. Non saranno d’accordo? Va bene, si prendano la mia tessera. Se la trovano. Credo di averla smarrita molti anni fa: e non ho mai pensato che fosse importante averla, così come non l’ho mai mostrata ad alcuno in vita mia. Quanti tra loro in tutta onestà potranno dire lo stesso?

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