Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il mio torto è aver fatto cronaca
Oggi avrei dovuto presentarmi davanti alla commissione disciplinare dei giornalisti, soggetti professionali coi quali dubito da oltre vent’anni di avere colleganza. Un articolo che pubblicai circa sei mesi fa sembra avermi ricollocato nel cono di luce degli organismi di categoria: la commissione disciplinare che mi convoca, l’Ordine che reclama improvvisamente tasse non pagate da una decina d’anni, la Casagit (una cassa integrativa per le spese mediche) che mi intima di versare contributi arretrati risalenti a cinque anni fa.
Dunque, alla vigilia dell’interrogatorio al quale non intendo sottopormi, mi sento costretto a fare un piccolo e tardivo esercizio di autocritica per comprendere dove avevo ragione e dove torto scrivendo quel che ho scritto, perché tutta questa attenzione su di me e se per caso conserva ancora un barlume di pubblico interesse il mio vecchio sfogo contro la vita in lockdown. Di primo acchito direi che resta attuale, molto attuale, il senso politico della protesta contro autorità in stato confusionale, incapaci di gestire l’emergenza ma solerti nel dichiararne lo stato.
Al netto di quanto le diverse inchieste della magistratura prima o poi mostreranno, come negare l’evidenza di un ceto politico locale, nazionale e internazionale contemporaneamente incerto e arrogante, che ha prodotto decisioni dure e nello stesso tempo ambigue. I cinema e i teatri li abbiamo chiusi in un niente, senza dire della scuola, ma le discoteche sono state aperte al primo sentore d’estate. E mi fermo qui. Ciascuno avrebbe qualche esempio da fare. Ma sarebbe un errore madornale, solo una perdita di tempo, analizzare le tante incongruenze vissute sulla nostra pelle.
Molto più interessante mi sembra ribadire l’idea che nel mondo occidentale questa pandemia ha prodotto la prima prova generale di una specie nuova di democrazia. Una democrazia autoritaria che pretende di decidere su tutto, punto per punto, determinando la vita dei cittadini in ogni dettaglio. La confusione, l’ambiguità, insomma le contraddizioni spesso patetiche scaturite in questi mesi di Dpcm illeggibili e ordinanze regionali roboanti potrebbero essere lette come il risultato paradossale di un potere che rincorre la vita, si rende conto di non potercela fare e allora si mette in testa di fermarla. S’intravede, nelle azioni esercitate dai nostri governanti sotto attacco virale, l’ombra dell’impotenza congenita in ogni forma di autoritarismo, che è ansia da prestazione, paranoia, infine tragicommedia. E qualche volta avanspettacolo.
Allora mi chiedo: si può ancora non essere followers o haters e semplicemente criticare i governanti che ritengono di agire i peggiori sentimenti dei cittadini per conquistare likes e voti? Penso che questo dovrebbe essere il ruolo dei media e dei giornalisti che li occupano e li manovrano, affinché noi che scriviamo e parliamo con piglio professionale non finiamo con l’essere percepiti come un’altra casta in cerca di visibilità e potere pubblico. Purtroppo l’informazione al tempo della pandemia ha quasi sempre fatto da megafono al delirio scientifico di una miriade di virologi, epidemiologi, infettivologi e clinici di ogni risma, fornendo notizie smentibili e difatti smentite di giorno in giorno. E in tv e sui giornali ha promulgato con deferente sollecitudine ogni editto illiberale proveniente dai vari livelli di governo, come fossero comandamenti sacri e inviolabili. Allo stato dei fatti, mentre il virus non si distrae e il livello dei contagi non sembra deflettere, ancora nessuno sa se la decisione iniziale del lockdown totale e non selettivo sia stata conseguenza di una valutazione tecnica o essenzialmente politica. La questione non è di poco conto. Se la situazione tornasse ai livelli critici dello scorso febbraio, sarebbe accettabile economicamente e socialmente la replica del lockdown? In quell’articolo di sei mesi fa ho ragionato su queste idee e ho espresso più o meno le ansie che circolavano tra noi e che non sono per niente scomparse. Ho il torto di aver detto che, mentre la paura attanagliava i più, me ne andavo in giro sullo scooter sperando di cavarmela con la tessera professionale in tasca come una specie di salvacondotto.
Oggi, con qualche sforzo, posso comprendere il malumore di chi ha letto il mio articolo sui divani di case divenute prigioni, tuttavia mi sento di dire a tutti i lettori, ma in particolare ai giornalisti che si sono diverti
ti a insultarmi impunemente, a quelli che mi hanno deferito agli organi collegiali e a quelli che oggi vorrebbero interrogarmi o radiarmi, che ho semplicemente raccontato quello che succedeva intorno a noi, il detto e il non detto, tentando un’analisi delle cose che stavano accadendo.
Condivisibile? Non so, ma non mi sembra questo l’essenziale. Nel bene e nel male ho esercitato con rischio (infatti la polizia è venuta a casa per mettermi in quarantena, cioè agli arresti domiciliari) il diritto di cronaca, l’autonomia di pensiero e la libertà di critica, valori essenziali del giornalismo che dovrebbero essere sacri per i miei futuri ex colleghi. Non saranno d’accordo? Va bene, si prendano la mia tessera. Se la trovano. Credo di averla smarrita molti anni fa: e non ho mai pensato che fosse importante averla, così come non l’ho mai mostrata ad alcuno in vita mia. Quanti tra loro in tutta onestà potranno dire lo stesso?