Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Autoanalisi di un docente
L’insegnamento non è una tecnica, se non nelle menti di qualche burocrate o di qualche pigro. Fa parte di quelle che Schon chiama professioni riflessive che devono sottostare ad una costante manutenzione cognitiva. Niente è più immateriale, quindi. Forse per questo l’impegno, la competenza, la cultura, l’aggiornamento didattico non diventano mai capitoli di spesa anche in questo epocale «scossone». Mentre la didattica è proprio il luogo dove si misura l’innovazione ( o la conservazione).
Per me, assumere il compito docente significa sollecitare e sostenere la realizzazione del profilo cognitivo ed emotivo degli studenti. Offrire loro competenze trasversali che permettano di costruire un proprio progetto personale, e flessibili per mantenersi consapevoli dei cambiamenti lungo la loro vita e nella propria epoca. Quindi, devo essere pronta chiedermi se sbaglio. Perché noi docenti sbagliamo, non sempre, ma sbagliamo! Soprattutto, quando non vogliamo «disapprendere» (Freeman) abitudini mentali e ne restiamo schiavi. È nell’onestà intellettuale di ogni docente osservare il proprio lavoro, dunque; io credo che hanno ragione Connelly e Clandinin quando dicono che «si insegna per come si vive».
Dichiaro subito i punti ai quali attribuisco più valore nella mia didattica: i Buoni e i Cattivi Maestri. La fiducia nelle menti degli studenti. La capacità di mettere in relazione scienza ed esperienza attraverso il pensiero analogico.
Ho visto Cattivi Maestri «bravissimi» (non sembri una contraddizione) che si innamorano del proprio parlare, ciechi ad ogni segnale di disagio o di stanchezza dei loro studenti, narcisisti e rigidi; mentre ho riconosciuto il valore di quegli insegnanti allenati ad osservare ogni minimo batter di ciglia e capaci di fermarsi e tornare indietro in ragione del grado di comprensione che erano stati capaci di suscitare, senza sentirsene per questo sminuiti. Io stessa, cambiando Facoltà, ho riformulato in una notte l’impianto del corso, dopo aver percepito alla prima lezione che il mio linguaggio era incongruo per i miei nuovi studenti.
La fiducia nelle menti degli studenti mi è stata insegnata da Eliana Frauenfelder. Iniziava i corsi con quello che lei chiamava negli anni settanta «il recupero dell’esistente» - che ora catalogo come «sapere implicito». Dunque, tutti gli studenti – tutti – hanno un’idea su ogni tema. Spesso non sanno di averla, però, e rimane nascosta ed insidiosa nelle loro menti. Non ha importanza se è una idea giusta o sbagliata; in ogni caso sarà il radicamento dei loro apprendimenti successivi per analogia o per differenziazione. Va fatto, dunque, un lavoro profondo, «permettendo» agli studenti di parlare di sé e delle proprie esperienze. Questa convinzione mi ha portato a perseguire da anni la flipped-classroom, perché se avessi dichiarato subito, alla prima lezione, le mie opinioni avrei messo come un «tappo» alla loro espressione, inducendoli all’apatia ed alla delega dei loro apprendimenti. I miei studenti sanno sin da subito che saranno loro ad indirizzare il mio corso e saranno le loro «restituzioni impertinenti» (Schon) a mettere in gioco la mia capacità di analizzare, confrontare, organizzare la loro esperienza in rapporto alla disciplina che insegno.
Utilizzare il rapporto tra «pensiero regolato ed esperienza», infine, è il frutto di un’antica folgorazione (1984) per il pensiero della complessità che mi ha permesso di legittimare la frantumazione dell’unità del sapere. Siamo capaci di connettere cose che non hanno relazioni concrete, perché, come dicono gli epistemologi, «i nessi non constano mai empiricamente».
Sono le regole alle quali attribuiamo fiducia a creare i nessi (Polanyi).
Questo apre il varco a meravigliose ibridazioni tra le discipline e le arti, il teatro, la musica, le nuove tecnologie, la tradizione e le life skills che governano la nostra quotidianità. Pensate alla creatività didattica dell’istituto Casanova che ha costruito i famigerati banchi post covid. «Un nuovo orizzonte di senso di un gesto semplice», dice su questo giornale Mario Rusciano, che ha reso pienamente educativo il legame tra la spinta della necessità, l’esperienza artigianale e non ultima la percezione individuale del valore collettivo del proprio lavoro.
La nostra mente funziona, infatti, magnificamente proprio grazie a queste forme analogiche che assumono una potentissima fascinazione cognitiva anche per i nostri studenti.
Pochi giorni fa ho fotografato la Capri che vedete nella foto in basso grazie ad una banalissima competenza tecnologica. Perché mi è piaciuta così tanto da avere la voglia di fotografarla (conoscenza apprezzativa)? Questa immagine richiamava nella mia mente qualcosa (procedimento analogico).
Ecco! Era un’opera di Magritte (sapere implicito). L’ho cercata su internet, l’ho trovata ed ho letto alcuni interventi critici (azione di ricerca). Il suo titolo «idee chiare» è un evidente paradosso surrealista (contestualizzazione ) che «significa bandire dalla mente il già visto e ricercare il non visto» ( Magritte).
L’ho associata alla mia foto ed ho capito (pensiero riflessivo). Evocava in modo straordinario le regole della complessità che permettono di «andare oltre» la rappresentazione dell’oggetto reale. Quindi la mia foto di Capri era tutt’altro che casuale.
La didattica, allora, è prima di tutto un processo immaginativo radicato nella coscienza di quello che sappiamo (possiamo usare per una volta il termine cultura senza vergognarcene?) che genera rimandi non lineari, emozioni e consapevolezza del nostro pensiero. Ma per poter usare queste metodologia dobbiamo saper riconoscere in noi stessi i passaggi emozionali e cognitivi che hanno portato a concentrare la nostra attenzione in quella particolarissima, ed e volte fuggevole, visione. E farla punto di partenza di un processo didattico riflessivo. Altrimenti gli studenti percepiranno subito l’infondatezza del nostro insegnamento. E scadrà la loro fiducia.
Da una foto di Capri a un’opera di Magritte: riflessioni sulla conoscenza e sulla didattica