Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Int ’o rione

- Di Fortunato Cerlino

«La sincera verità? A me della politica nun me ne fotte niente. È diventata ‘na barzellett­a. A finale tutti dicono, fanno, e po’ è sempe ‘a stessa canzona. Na volta al governo se scordano di quelli che li hanno mandati al potere. A me l’unico momento che ‘a politica mi interessa sai qual è? Quanno ce stanno l’elezioni». «Overamente?». «Sissignore. Solo in quell’occasione, diciamo, ‘a politica addiventa na cosa utile».

«E come mai?».

«Pecché si interessan­o a me, hai capito? Mi corteggian­o proprio. Fissano ‘a telecamera cercanne proprio il mio sguardo. ‘O politico addiventa ‘o meglio amico mio, il mio difensore, il confessore. Capisce la mia fame, le ingiustizi­e che subbisco, i soprusi. Ci tiene proprio assaje a me e al mio futuro. La mia opinione conta per lui, tiene un valore. E ha ragione. Il mio voto lo tiene un valore…». Giuseppe detto ‘o Garibaldi, a causa della sua folta barba e la camicia rossa che non toglie mai di dosso, strizza l’occhio e ammicca platealmen­te. «Non ti seguo».

«Sto parlanne della cinquanta euro che voi generosame­nte ci date. Pecché alla fine solo voi sapete dare valore alle nostre idee». Ride sguaiatame­nte.

«Certo ‘o Garibà, così è».

«E io che sto dicenne?!».

«Noi capiamo benissimo quello che valete, e tu sai che è così. Pure per questo sappiamo che non ti fa nessuna differenza che stavolta invece di cinquanta, saranno trenta».

Giuseppe smette di sghignazza­re. «Non ho capito?».

«Trenta euro a voto… purtroppo ‘o momento non è facile pe’ nisciuno… ci sta crisi pure per noi».

‘O Garibaldi si scurisce in volto e si liscia la barba.

«Ho capito… ho capito», ripete tra sé facendo su e giù con la testa. «Allora è overo quello che si vocifera nel rione?».

«E che si vocifera?».

«Quello che mi hai appena riferito. Invece di cinquanta, so’ trenta». «Così è».

Un prolungato silenzio tra i due. Giuseppe riempie i polmoni e resta in apnea per qualche istante, poi ricomincia a ridere. «E so’ pochi!« Allarga le braccia e rivolge al suo interlocut­ore uno sguardo umido.

«Ci rendiamo conto, però stu cazzo ‘e covìd ha creato non pochi danni. Le attività commercial­i so’ state chiuse e non abbiamo potuto pretendere, hai capito?«

«Ho capito… ho capito… trenta però è un’offesa, qua stiamo parlando di ideali, di dignità. Facimme quaranta e stiamo d’accordo».

L’altro lo studia. Si allontana di qualche passo.

«Quaranta?».

«Quaranta».

«Ma il problema sai qual è ‘o Garibà? Che se facciamo quaranta a te po’ avimme fa quaranta a tutti quanti gli altri».

«E certamente… stiamo in democrazia in fin dei conti, o no?».

«Senza dubbio. Siamo in democrazia..». L’altro aggrotta le sopraccigl­ia, il suo sguardo diventa cattivo. «A malincuore devo dirti di no».

Giuseppe si morde le labbra. «Peccato… peccato… è uno spreco…« Poi comincia a fare i conti sulle dita della mano. «Io, mia moglie, mio figlio grande e pure ‘o piccerillo, che quest’anno comincia a votare, fanno quattro voti. Stamme parlanne di centoventi euro».

«Centoventi euro». Conferma l’altro senza scomporsi.

«’A vota passata in tre avimme fatto centocinqu­anta!».

«Te l’ho spiegato come stanno le cose. ‘O virùs…».

«Aggio capito ‘o virùs, però accussì nun se po’ fa».

«È cosa che non dipende da noi». «E nemmeno da noi. Con tutto il rispetto, il voto è na cosa importante. Si tratta di condiziona­re ‘o destino della nostra terra. Queste poi so’ elezioni delicate. Le comunali e le regionali sappiamo benissimo che vi stanno parecchio a cuore. Nun se tratta di decidere chi va a Roma, ma di chi comanderà ‘a casa nostra, è giusto?».

«Giusto».

«Un voto di importanza politica fondamenta­le».

«Ma non avevi detto che della politica nun te ne fotte niente?».

«Certo, quando il mio voto valeva almeno cinquanta euro, ma pe’ trenta ci devo pensare. Pe’ trenta euro va a finire che mi torna la voglia di votare come comanda il cuore e non come impone la tasca. Io tengo i figli giovani, che futuro ci sto dando?«

L’altro cammina su e giù poi si ferma proprio di fronte al Garibaldi con aria minacciosa. «Fossi in te però ci penserei meglio. Questo genere di rivoluzion­i non piacciono a chi mi manda. Sai come si dice? Punire uno per educarne cento».

«Ma questo succedeva prima del virùs, mo non è più così».

«Ah no?».

«E no! In tempi normali hai ragione tu, è ‘a paura che comanda. In tempi di crisi invece, comanda ‘a fame. Cedimi, quanno ce sta ‘a famme, nemmeno gente rispettabi­le come voi riesce più a spaventare ‘o popolo. Va a finire che poi ne perdete a cento insieme a quell’uno. Senti il mio consiglio. Quaranta euro a testa e noi vi mettiamo a disposizio­ne tutta la nostra passione politica, come sempre. Voi siete nu punto ‘e riferiment­o per noi, e noi per voi. Per sta volta, per venirci incontro, facciamo accussì, poi quanno passa stu virùs torniamo alla normalità, a cinquanta. Riferiscil­o a chi ti manda. Il destino dell’Italia sta in mano a voi».

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