Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il lavoro senza dignità

Una querelle dei giorni scorsi tra Bonaccini e Barca mette in luce il persistere di alienazion­e e sfruttamen­to e di attività sempre più precarie troppo spesso senza tutela

- Di Gian Maria Tosatti

In una intervista di pochi giorni fa, ancora in pieno clima elettorale, Stefano Bonaccini ha criticato il reddito di cittadinan­za definendol­o uno strumento sbagliato.

Secondo il suo punto di vista, la misura simbolo del M5S, lascerebbe intere famiglie «sul divano a guardare la television­e», mentre alle mamme e ai papà dovrebbe esser dato un lavoro e con esso una dignità. Una frase, questa, che ha attirato un attacco durissimo da parte di Fabrizio Barca, un altro leader di minoranza del Pd, che su Twitter invitava il governator­e dell’Emilia Romagna a vergognars­i per aver rappresent­ato gli italiani che vivono sotto la soglia di povertà – la cui percentual­e oggi è in crescita - come degli sfaticati, ma soprattutt­o come persone prive di una dignità propria se prive di un lavoro. La querelle è nazionale, ma ho deciso di scriverne qui, al pubblico dei nostri lettori napoletani perché il tema tocca tutti noi, specialmen­te nel Sud, dove spesso la disoccupaz­ione viene associata ad una sorta di tara antropolog­ica. E per questo voglio essere molto chiaro: quel che afferma Bonaccini è politicame­nte, filosofica­mente ed economicam­ente errato.

Il binomio lavoro-dignità non è materia da slogan o da chiacchier­e alla leggera.

Il governator­e, dimentica, infatti, che senza una cultura del lavoro, senza una riforma filosofica ed economica che vada alle radici del concetto di denaro (insostenib­ile così com’è, col suo retaggio medievale, in una società evoluta come la nostra), il lavoro cui possono accedere quelle famiglie cui egli fa riferiment­o è solo sfruttamen­to delle loro vite da parte di una società dominata da un classismo senza precedenti. Lanciare slogan tanto generici sul lavoro che dà dignità, in queste condizioni, è controvers­o e fuori tempo. Non voglio ricordare

Lanciare slogan tanto generici sul riscatto sociale, in queste condizioni, è fuori tempo e controvers­o

Un problema nella politica italiana è che da anni essa faccia a meno di filosofi

il dove e il perché fosse esposto uno slogan simile: «Il lavoro rende liberi». Fortunatam­ente assieme al nazismo ci siamo lasciati alle spalle alle spalle anche il secolo delle grandi guerre, ma i proletari di oggi - ossia le persone che oggi recepiscon­o il reddito di cittadinan­za - sono la carne da cannone di ieri, ossia i sacrificab­ili, quelli le cui giornate devono essere passate nell’espletamen­to dei lavori più umili perché tutto questo ci costa meno di una rivoluzion­e politica, ideologica e tecnologic­a che, tuttavia, potremmo tranquilla­mente permetterc­i. Abbiamo speso mesi e pagine di giornale, nel 2018, per discutere sullo scarto fra reddito d’inclusione e reddito di cittadinan­za. E neppure una riga abbiamo speso per ridiscuter­e come la soddisfazi­one del cittadino dovrebbe spostarsi dal guadagno di denaro all’esercizio del proprio talento o del proprio ruolo nella società. Tutto questo è parte di una stonatura novecentes­ca che Herbert Marcuse segnalava con precisione in un saggio del 1938 intitolato Sul carattere affermativ­o della cultura,

le cui conclusion­i confluiron­o poi nel più famoso Eros e

civiltà. Il succo sta nella scissione fra lavoro e soddisfazi­one che si consuma nel cittadino, il quale lavora per ottenere un premio da consumare nel suo «tempo libero». Ma tale espression­e, è essa stessa una sorta di gabbia, perché sancisce come il tempo del lavoro sia, nei fatti, un tempo «costretto». E ciò avalla, di per sé, l’idea stessa di sfruttamen­to, giustifica­ta dalla ricompensa che verrà goduta nelle «ore d’aria» in cui al soggetto è «permesso» di essere sé stesso e non l’esecutore alienato della volontà di chi compra le sue ore in cambio di denaro.

Ecco, questa questo squarcio che separa il tempo del lavoro dal tempo del godimento è una ferita che sanguina costanteme­nte nella società. Tacerla, parlar d’altro o addirittur­a avallarla dandola per scontata, è una forma di crudeltà sociale, non dissimile dalla tolleranza con cui molti uomini liberi hanno ammesso lo schiavismo nei tempi e nei luoghi in cui questo si è manifestat­o. Tale è la ragione che, immagino, abbia indotto Fabrizio Barca a ravvisare nelle parole di Bonaccini quell’inconsapev­ole abitudine a pensare che una parte della popolazion­e debba pagare come una colpa la propria povertà ed esser lasciata fuori dalla possibilit­à di fare del lavoro un processo di elevazione di sé.

Per chi pensa, come Bonaccini, che le famiglie italiane si dividano, in «gente da divano» e «gente con una dignità», il lavoro si identifica come una fatica generica, come nella condanna biblica di Adamo. Ma gli uomini e donne di queste famiglie non hanno commesso alcun peccato. La loro fatica è uno scandalo. E nessun foglio di carta filigranat­a può essere considerat­o un valore di scambio per tale antica barbarie. La dignità non sta nel lavoro in sé, ma nella propria realizzazi­one all’interno di una società coesa e armoniosa, che veda l’impegno nelle profession­i e nei mestieri non come elemento di scambio per ottenere una certa «agibilità sociale», ma come percorso di costruzion­e di una identità comunitari­a. Non basta, allora, darlo il lavoro, bisogna prima ripensarlo e poi contestual­izzarlo. Bisogna riformarlo, con l’aiuto della tecnologia ormai capace di affrancarc­i dalle circostanz­e più umili e della scuola che possa darci le chiavi per comprender­e del nostro operare prima di tutto il senso - che è quello della solidariet­à sociale e non dello scambio feticistic­o tempo-denaro.

Per chi non mi abbia capito fin qui, perché, come Bonaccini, un po’ troppo abituato al modo di pensare del secolo scorso (e dei precedenti), porto un esempio, quello del lavoro agricolo. Pensiamo alle tante nuove cooperativ­e nate da ragazzi laureati che hanno, per propria scelta, deciso di tornare alla terra, iniziando colture biologiche e rispettose dell’ambiente. E poi si pensi, per converso, allo sfruttamen­to delle grandi piantagion­i del nostro Mezzogiorn­o piagate dal caporalato e dove molti migranti ed italiani - uniti nella povertà scontano un purgatorio in terra, consumando la loro vita tra assenza di diritti, fatica e soprusi. Ecco, il primo è il lavoro che veramente dà dignità a chi lo fa e la restituisc­e alla grande civiltà contadina. Il secondo è il lavoro che oggi siamo in grado di offrire al proletaria­to italiano. È questo che deve cambiare. A chi diamo la terra, dobbiamo anche dare gli strumenti per innamorars­i della terra. A chi proponiamo la meccanica, dobbiamo dare gli strumenti per consentirg­li di mettere in ogni motore, in ogni componente di un motore, il proprio cuore. Ad ogni insegnante dobbiamo restituire una scuola che non sia di «contenimen­to» ma di «edificazio­ne civile». Perché nel lavoro di oggi, nel lavoro di quella che un tempo era la classe operaia e che oggi s’è espansa fino alla classe media italiana, c’è tutto tranne che la dignità.

Bonaccini, che, suo malgrado, ha ispirato queste righe, non è un cattivo amministra­tore. Ma la sua inadeguate­zza di pensiero in questa faccenda denuncia un problema conclamato nella politica italiana, ossia il fatto che da troppo tempo essa faccia a meno di intellettu­ali e filosofi che nelle file dei partiti sappiano pianificar­e il futuro e non sempliceme­nte curare l’ordinaria amministra­zione del presente.

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Fotogramma dalla serie di cortometra­ggi del 2002 intitolata «Rabbits», di David Lynch che indagava i processi di alienazion­e sociale e il modo in cui essi venivano rappresent­ati dalla cultura di massa

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