Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Lissner: stiamo creando la Netflix del San Carlo Produrremo anche film

«Con i posti limitati perdiamo circa 50 mila euro a serata Avremo uno studio interno e tecnologia avanzata. Al via nel 2021»

- Di Simona Brandolini

«Napoli è una città che ha rifiutato la globalizza­zione. Ha una sua identità, una sua resistenza al mondo. Ho lavorato ovunque ma solo qui ho avuto questa sensazione. E questo la rende diversa». Stéphane Lissner, sovrintend­ente e direttore artistico del teatro San Carlo, così archivia anni di pizza, sole e mandolino.

Epoi all’improvviso capita di ascoltare un’analisi assai lucida su Napoli. Molto più delle tante, legate spesso al folklore di una città bella e dannata. Tanto meno sorprenden­te perché viene da un francese, che ha occhi nuovi con cui guardarla. «Napoli è una città che ha rifiutato la globalizza­zione. Ha una sua identità, una sua resistenza al mondo. Ho lavorato ovunque ma solo qui ho avuto questa sensazione. E questo la rende diversa». Stéphane Lissner, sovrintend­ente e direttore artistico del teatro San Carlo, così archivia anni di pizza, sole e mandolino, seduto dietro la sua scrivania con vista sui giardini di Palazzo Reale. La finestrell­a segreta da cui si sbircia il palco, tra i più prestigios­i al mondo, è oscurata dalle scene della Rondine. «Sono felice il problema di Napoli, è la situazione della squadra, che è strana. Pericolosa».

Il San Carlo, come tutti i teatri, sta applicando le disposizio­ne anti-Covid. Con quali risultati?

«In questo momento applichiam­o l’ordinanza della Regione che prevede la distanza di un metro e cinquanta tra le poltrone. Con la possibilit­à di ridurre a un metro col plexiglass».

E quest’ultima è la soluzione che avete adottato.

«Così siamo riusciti ad arrivare a 500 posti, da un punto di vista economico già è complicato».

Quanto perde il San Carlo con queste disposizio­ni?

«Il bilancio del San Carlo è di 40 milioni l’anno: il 50 per cento per le spese di personale, il 25 per le spese generali, un altro 25 per quelle artistiche».

Come si va in pareggio?

«Dobbiamo pagare la parte artistica con i ricavi del teatro e con gli sponsor».

Ma se i posti sono ridotti, sono ridotti anche i ricavi. Di quanto?

«Con 500 posti facciamo un 30 per cento di ricavi. Se pensiamo che con una serata media si incassano 70 mila euro, oggi ne ricaviamo tra i 25 mila e i 20. Perdiamo quindi 50 mila euro a serata, in un anno 5 milioni. Questa è la realtà. Dobbiamo immaginare altre soluzioni, perché se si continua così non ce la facciamo».

A chi fa appello?

«Alle istituzion­i: Stato, Regione, Comune, città metropolit­ana. Se ci danno i contributi dell’ultimo anno potremmo riuscire a cavarcela, se non sono in grado di farlo la situazione sarà ancora più grave. Come facciamo ad andire dare avanti? L’orchestra, il coro, il corpo di ballo sono pagati da noi. Ma se vuoi il nome di richiamo, il grande direttore si devono pagare a parte».

L’immagine del flash mob a piazza Duomo a Milano, con gli artisti muti a battere sui bauli chiusi, è stata potente.

Lei crede che in Italia la cultura sia stata abbandonat­a?

«Se guardiamo con sincerità a quello che succede altrove, penso all’Inghilterr­a ma anche alla Francia, sembra che circolino tanti soldi per il settore, ma in questo momento va male dappertutt­o. E devo che sullo spettacolo dal vivo il ministro Franceschi­ni sta cercando soluzioni. Poi bisogna sfatare dei miti in generale. Non è vero che in Francia si pensa alla cultura e in Italia no. Dal 1981 con Mitterand è stata realizzata la Piramide del Louvre, l’Opéra della Bastiglia e tante altre opere. Ma oggi la Francia non ha più soldi per pagare tutte queste aziende culturali. Oggi sono in grande difficoltà. L’Opéra ha perso 80 milioni di euro».

Che San Carlo dobbiamo aspettarci? A quale idea sta lavorando?

«C’è un progetto al quale sto lavorando con la Federico II e lo staff del San Carlo già da prima dell’inizio della pandemia. Il futuro di queste istituzion­i dovrà essere più sociale. Deve guardare alla città che li ospita. Il San Carlo non può essere solo produttore di lirica, di concerti e balletti. Certo quella è la sua missione, ma non l’unica. Ho cercato di sviluppare l’idea di una piattaform­a digitale che farà di noi un grande produttore di contenuti».

Cioé una sorta di Netflix San Carlo?

«Esatto. Avremo uno studio di produzione interno e tecnologia avanzata, grazie alle risorse regionali. La mia idea parte da una constatazi­one: lo streaming dello spettacolo oggi lo fanno tutti. Questa piattaform­a dovrà invece contenere progetti diversi: il regista cinematogr­afico, lo scrittore, il fotografo che non sono per forza addetti ai lavori, possono lavorare a piccoli film, documentar­i, a partire dal patrimonio lirico del ‘700 in poi, raccontato in maniera nuova. E questi prodotti andranno ovunque nel mondo, senza confini. Sarà il secondo palcosceni­co del San Carlo. E noi saremo i produttori».

Progetto ambizioso, qualche purista potrebbe storcere il naso.

«Nessuno vuole sostituire la missione e l’anima del teatro. Ma non è un progetto pedagogico o di pura comunicazi­one. È un palcosceni­co sperimenta­le.

Il futuro Il digitale va anticipato, non rincorso Non dico che la gente non verrà più a teatro, ma dobbiamo essere capaci di proporre altre cose. Valchua? È con noi, abbiamo progetti fino al 2023

Coro e Balletto Con Gea Garatti e Giuseppe Picone abbiamo condiviso un lavoro, a cui guardo con stima e rispetto. Ma oggi vorrei andare più avanti, e lo farò con un passo diverso

Ma che ha due parametri essenziali da soddisfare».

Quali?

«La città e il San Carlo. Napoli è diversa dalle altre. Non è New York, né Milano. Ha rifiutato la globalizza­zione, ha la sua identità, la sua resistenza al mondo. Ed è l’unica in cui la miscela tra alto e basso è così evidente».

Quali sono i tempi?

«Brevi, se tutto va bene inizio 2021. È un progetto ambizioso e particolar­e. Ma il digitale va anticipato, non rincorso. Non dico che la gente non verrà più a teatro, ma dobbiamo essere capaci di proporre altre cose».

Ci sono novità da quando è arrivato. A cominciare dall’ex direttore musicale Juraj Valcuha?

«Chiariamo subito che Valchua è con noi, abbiamo progetti di lirica fino al 2023».

Ma la direttrice del coro Gea Garatti Ansini e il direttore del balletto Giuseppe Picone non sono più al San Carlo.

«Con loro abbiamo condiviso un lavoro, a cui guardo con stima e rispetto. Ma oggi vorrei andare più avanti, con un passo diverso».

C’è un passo diverso anche nel rapporto con i sindacati e i lavoratori o no?

«Sono per il dialogo sempre. Solo così un teatro e un’azienda possono andare avanti. Capire il punto di vista dei lavoratori è fondamenta­le. Mi sembra che i sindacati abbiano dimostrato una responsabi­lità in questi mesi. Quanto ai lavoratori sono in grande difficoltà, quando si va in cassintegr­azione e si prende il 60 per cento dello stipendio è dura. Ho cercato di aiutare. Poi ogni tanto dobbiamo anche dire di no. Ma è un momento in cui oltre all’aspetto economico bisogna stare attenti anche a quello psicologic­o».

La città metropolit­ana ha annunciato 3 milioni per stabilizza­re i precari del coro e del balletto. A che punto è la procedura?

«Aiutare il San Carlo è sempre un bene, ma prima dobbiamo verificare la sostenibil­ità dell’organico con revisori e ministero. Questo dice la legge. Mi auguro che si possa andare avanti».

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Sovrintend­ente Stéphane Lissner

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