Corriere del Mezzogiorno (Campania)
In tempi di social il bar resta il pulpito preferito
Ma voi, sul piano squisitamente antropologico, non trovate interessante che, in tempi tecnologicamente evoluti, il pulpito preferito del predicatore gratuito rimanga il bar? Insomma: i social sono ormai diventati (gallerie di gattini a parte) delle bacheche a cielo aperto liberamente insozzabili e frequentate a qualsiasi ora del giorno e della notte da opinionisti irrichiesti che si esprimono su ogni campo dello scibile umano e lo fanno anche male (a volte si candidano, e te li ritrovi pure alla guida di qualche ministero).
E allora come mai persiste questa predilezione per il palcoscenico baristico eletto ad agorà de noantri, dove va quotidianamente in scena l’esternazione del
maîtres à penser volontario che ti tocca sorbirti insieme al caffè che butti giù come uno shottino per dileguarti alla svelta risparmiandoti l’esternazione?
Io una teoria (guardacaso malinconica) ce l’ho, e ha proprio a che fare con la ricerca inconscia di una ribalta e soprattutto di un pubblico. Nella proiezione velleitaria dell’editorialista orale, il bar è un teatrooff, uno spazio pensato per platee ridotte dove si rappresentano spettacoli d’avanguardia, alternativi ai circuiti commerciali. Il punto è che, se quella d’inventarsi un teatro immaginario (sia pure off) dove sentirsi un ibrido fra Kenneth Branagh e Paolo Mieli può anche essere una rispettabile patologia, è chiaro che se entri in questo (dis)ordine d’idee, poi ti serve un pubblico.
E qual è questo pubblico a cui di fatto imponi la performance? Quello dei poveri cristi che vanno al bar per un caffè e si ritrovano di fatto sequestrati dal KennethPaolo di turno. Tra l’altro, ci sono periodi (tipo questo qui del pieno allarme per la crescita dei contagi) in cui Kenneth-Paolo si aggiorna di continuo (manco internet ce l’avesse solo lui), e non vede l’ora di comunicarti le ultimissime.
Sentite questo dialogo, per esempio (è di ieri: il Kenneth-Paolo in questione, tra l’altro, lo conosco da molti anni, per cui non potevo neanche mandare giù il caffè a mo’ di grappino e fuggire):
Kenneth-Paolo: «Hai sentito la conferenza stampa di Macuoòn?»
Io: «Chi?» Kenneth-Paolo: «Emoniuèl Macuoòn. Il presidente francese».
Io: «Ma come Emaniuèl Macuoòn. Ci conosciamo da trent’anni, sei di Moio della Civitella».
Kenneth-Paolo: «Sfotti tu. Intanto ha messo il coprifuoco dalle nove di sera alle 6 di mattina».
Al che avrei potuto fargli presente che non eravamo in Francia, per cui non c’era bisogno che mi desse la notizia con quella drammaticità. Ma siccome avevo già capito dove voleva andare a parare, mi sono astenuto dalla replica.
Kenneth-Paolo: «Perché fai quella faccia? Pensi che “coprifuoco” sia un termine bellico, eh? Beh, ti sbagli. Lo sai perché si dice coprifuoco, eh? No, eh? Te lo spiego. Perché nel Medioevo c’era l’obbligo di coprire i carboni con la cenere per evitare gli incendi durante la notte. Ecco perché».
A quel punto gongolava come un venditore di calzini che ti ha appena rifilato sei paia a dieci euro. Quindi mi ha assestato il colpo di grazia.
Kenneth-Paolo: «Se non sai le cose, non sfottere. Informati. Studia un po’, piuttosto».
E se n’è andato, offeso e felice, senza neanche salutarmi.
Al che ho chiesto al barista di farmi un altro caffè, visto che il precedente non me lo ricordavo neanche più.
«Oh, avvocà», mi ha chiesto il barista passandomi la tazzina, poco dopo, «Ma veramente è di Moio della Civitella?».
A sabato prossimo.