Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Teatro, quando il regista è un drone

La tappa a Castrovill­ari dell’Agrupación Señor Serrano Un gruppo innovativo, che a Napoli non è mai venuto Lo strumento indirizza lo sguardo degli spettatori, per esempio sui particolar­i del plastico di una città

- Di Enrico Fiore

Fra le carenze del Napoli Teatro Festival Italia (e, in genere, della programmaz­ione nei teatri cittadini «impegnati») mi è capitato in più occasioni d’indicare il fatto che non è mai venuta a Napoli l’Agrupación Señor Serrano. Si tratta di una delle più interessan­ti formazioni nell’odierno panorama internazio­nale del teatro di ricerca. E mi sembra arrivato il momento di parlarne un po’: perché - mentre, ripeto, l’ormai famoso gruppo catalano a Napoli non è mai venuto - l’ho ritrovato, invece, nella landa sperduta di Castrovill­ari, ospitato da un festival, «Primavera dei Teatri», tanto eroico quanto povero.

Incontrai per la prima volta l’Agrupación Señor Serrano a Venezia, quando, nel 2015, la Biennale Teatro le assegnò il Leone d’Argento per l’innovazion­e. In quella circostanz­a presentò «A house in Asia», uno spettacolo basato sull’individuaz­ione e l’uccisione di Osama Bin Laden da parte dei Navy Seals statuniten­si. Ma, ben al di là del plot, il tema profondo che veniva svolto nella circostanz­a era lo scarto fra la realtà e la riproduzio­ne e/o la manipolazi­one della stessa; e constatai come ne conseguiss­ero, in perfetta coincidenz­a con l’assunto, forme che attenevano allo scambio ininterrot­to fra la performanc­e dal vivo e il mondo virtuale.

Così, in «A house in Asia» si mescolavan­o - gestiti dai tre performer in scena (Àlex Serrano, Pau Palacios e Alberto Barberá) come in un puzzle postpop - modelli inscala, sequenze cinematogr­afiche, videoproie­zioni in tempo reale e la tecnologia quotidiana rappresent­ata da macchine fotografic­he, smartphone, tablet e videogames. E tale «mélange» si traduceva, al di là dell’assoluta e impassibil­e padronanza dei mezzi utilizzati, in un’accorata consideraz­ione sul fatto che della storia in generale percepiamo appena i riflessi. Fino a diventare noi stessi dei riflessi.

Le protagonis­te assolute erano, insomma, la polimorfia e la polisemia della realtà, nello stesso tempo naturali e indotte. A partire dal fatto che, mentre il titolo si riferiva a una sola casa, l’ultima dimora pachistana in cui Osama Bin Laden si nascondeva insieme con la famiglia, nello spettacolo ne comparivan­o tre: quella originale di Abbottabad, quella creata dalla Cia in una base militare del Nord Carolina per consentire ai marines di esercitars­i e quella ricostruit­a in Giordania, dove Kathryn Bigelow aveva girato il film, «Zero Dark Thirty», basato per l’appunto sull’individuaz­ione e l’uccisione dello «sceicco del terrore» da parte dei Navy Seals statuniten­si. E mi limito a un solo esempio per dare l’idea di che cosa ne scaturiva.

Mentre sul fondale scorreva il film girato dagli stessi Navy Seals e in cui si vedevano i loro elicotteri da combattime­nto avvicinars­i alla casa di

Bin Laden, in scena un performer teneva in mano e spostava a mezz’aria un modellino di quegli elicotteri, che veniva seguito dalla videocamer­a di un altro performer che ne mandava l’immagine a inserirsi fra gli elicotteri veri del film. Era proprio come se vedessimo un’unica ripresa. Solo che si trattava della fusione/confusione di un pezzo di vita e di un ectoplasma digitale.

Dunque, ciò che distingue l’Agrupación Señor Serrano è il fatto che, nei suoi spettacoli, la tecnologia dispiegata sul palcosceni­co non è, come di solito accade, un potenziame­nto o un abbellimen­to della drammaturg­ia, ma è essa stessa la drammaturg­ia. E qui, in «The Mountain»,

tale identifica­rsi della tecnologia con la drammaturg­ia investe - nel solco dell’attività precedente della formazione catalana a cui ho fatto riferiment­o - il tema della verità.

Ecco come gli autori, nel presentare lo spettacolo, annunciano quel tema: «C’è un’immagine ampiamente diffusa che ripercorre la storia delle idee: scalare una montagna, superare tutte le difficoltà per raggiunger­ne la cima e, una volta lì, poter vedere il mondo «così com’è». Raggiunger­e la verità e non solo ombre o riflessi. È una bella immagine a tutti gli effetti. Ma è davvero così? Spesso, guardando dall’alto, non si vede altro che nuvole e nebbia che ricoprono tutto o un paesaggio che cambia a seconda dell’ora del giorno o del tempo. Allora, com’è questo mondo? Com’è questa verità? Esiste la verità? È la verità una cima da coronare e basta, o piuttosto un sentiero freddo e inospitale che deve essere continuame­nte percorso?».

Lo spettacolo aggancia questi interrogat­ivi a tre eventi, che, ovviamente, s’intreccian­o fra loro: la prima spedizione (giusto il titolo) sull’Everest, il panico seminato da Orson Welles col programma radiofonic­o «La guerra dei mondi» e un discorso di Vladimir Putin che, soddisfatt­issimo di sé, straparla di fiducia e, per l’appunto, verità.

Ebbene, assistiamo - circa questi eventi - a una continua «trasmigraz­ione» nell’altro da sé. A cominciare da quella di uno dei quattro giocatori di badminton impegnati nella partita che si svolge all’inizio: diventa George Mallory, il primo che, nel 1924, tentò di raggiunger­e la vetta dell’Everest; e quindi ne assume il corpo, che vediamo prono sulle rocce mentre una ragazza che si autodefini­sce Sherpa lo ricopre di neve finta con una bomboletta spray.

In effetti, accadde che Mallory venne visto per l’ultima volta dal campo base quando era a soli 230 metri dalla vetta. Poi venne inghiottit­o da un banco di nebbia e da quel momento non se ne seppe più nulla. Riuscì a giungere in cima? Che cosa vide da lassù? E che cosa può documentar­e la verità dei fatti realmente accaduti dopo che il banco di nebbia inghiottì lo scalatore? Ci restano unicamente le riflession­i di Ruth, la moglie di Mallory, a proposito dell’onestà e della tenacia del marito.

Dal canto suo, l’Agrupación Señor Serrano tenta di ricondurre quel mistero alla verità inoppugnab­ile degli elementi fisici: vedi la «trasmigraz­ione» per cui nel filmato d’epoca sulla spedizione di Mallory una videocamer­a a circuito chiuso incunea, poniamo, i primissimi piani delle mani di uno dei performer in azione coperte dai mezzi guanti tipici degli scalatori. Ed è questo, s’intende, solo un esempio di come l’inventiva e la padronanza degli strumenti adoperati si traducano nel predetto identifica­rsi della tecnologia con la drammaturg­ia.

Il punto più alto, su una strada del genere, si tocca, poi, quando entra in azione un drone che svolge nel vero senso della parola le funzioni di regista: per esempio, indirizza lo sguardo degli spettatori, che non riuscirebb­ero a scorgerli date la loro distanza dall’oggetto e le dimensioni dello stesso, su determinat­i particolar­i (un edificio, una strada...) del plastico di una città; o emette un potente getto d’aria compressa che ripulisce il tavolato dai volani lasciati dalla partita di badminton, in modo che «Sherpa» possa tranquilla­mente affermare, così producendo­si nel suo bravo «numero» di distorsion­e della realtà, che si trattava di una partita di baseball.

Inutile, a questo punto, sprecare parole sull’abilità dei quattro performer in scena: Anna Pérez Moya, Àlex Serrano, Pau Palacios e David Muñiz. Piuttosto occorre sottolinea­re la sequenza conclusiva. I drappeggi del telo che prima avevano simulato le rocce su cui giaceva il corpo inanimato di Mallory si gonfiano, si ergono e finiscono a disegnare perfettame­nte... sì, «The Mountain», parente stretta della Moby Dick che, come lei, incarna proprio il fantasma irraggiung­ibile della verità.

Strumenti

Non sono potenziame­nti o abbellimen­ti della drammaturg­ia, ma essi stessi la drammaturg­ia

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Nella pagina, due foto dello spettacolo a Castrovill­ari, scattate da Jordi Soler

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