Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Un padre, una figlia e le ore dell’attesa
Un tremito nell’aria, un boato in lontananza. Quassù, nella Città del Nord, i temporali saturi di elettricità sono rari, di questa stagione. Personalmente, trovo eccitanti i tuoni e i lampi, quasi mi galvanizzano. Clara, viceversa, ne è terrorizzata come mia madre. Clara è mia figlia; siamo qui a casa che ammazziamo il tempo fra una misurazione di temperatura e l’altra, in attesa del referto dalla sanità pubblica.
A carte lei mi batte regolarmente; Clara è giovanissima, ha una mente prensile e, poi, a questi giochi sono sempre stato una scartina. La sogguardo mentre sto mescolando il mazzo di napoletane con la testa altrove. La preoccupazione per gli esiti la infantilizza ai miei occhi, dev’essere quello. Sta di fatto che mi capita sempre più spesso di tornare indietro negli anni. Il punto è che quando Clara è nata io non potevo già più dirmi giovanissimo. Lei avrebbe avuto bisogno di un fratello, più o meno coetaneo. Io, a fini ludici, ero solo un ripiego, tuttavia presumo di essermela cavata con onore (guai se non la pensassi così!).
«Ho una carta in meno», mi riprende lei, con una piccola smorfia. Un buon pretesto per mischiare di nuovo, mischiare le carte come mia specialità. Ho anche modo, così, di ripensare a quando lei era piccola e io impersonavo il suo destriero. Sì, insomma: la cavalcatura che doveva metterla in salvo dai lupi (erano il suo babau, credeva di scorgerli ovunque, specie nel grande guardaroba a tutta altezza). Sempre in qualità di cavalcatura-guardia del corpo, dovevo vegliare su di lei. Capitava essenzialmente nelle soste notturne durante la fuga attraverso una foresta che non pareva avere mai fine (tre giorni e tre notti per venirne fuori. Anche stavolta ne verremo fuori incolumi).
«Vabbè, è chiaro che oggi non hai la testa», e Clara scuote la sua, sconsolata. A sei anni aveva una capigliatura fiabesca colore del grano e viveva, tipico dell’età, buona parte del tempo nelle fiabe. In un universo fantastico dove lei si ingegnava ad accendere il fuoco del nostro bivacco. Io, il saggio cavallo che contava su un istinto infallibile, fiutavo l’aria. Dovevo subodorare per tempo la presenza di qualche fiera nel dintorni. Le mie froge nervose, all’erta come oggi rispetto al minimo indizio minaccioso. Il nitrito di allarme con cui la svegliavo al primo sentore di pericolo. Lei, invariabilmente, se ne deliziava e mi balzava in groppa, spronandomi.
«Come va l’olfatto?», le ho chiesto per la decima volta. Per la decima volta lei annusa la manica del suo pullover. Clara ha l’olfatto di un cuoco, un vero laboratorio biochimico. Storce il naso: «mi sembra di sentire tutto, come sempre». L’apprensione di suo padre, un’altra malattia contagiosa, inevitabilmente finisce per angosciarla. Non si mostra insofferente, però. Ha diciassette anni; si rende conto che certi tic, certe ossessioni sono inevitabili, aspettando gli esiti del tampone. Per fortuna, senza scomporsi, ha preso l’iniziativa di riporre la carte nella loro scatolina; iniziava a diventare una tortura per me. Ripiega sulla smartphone e ritrova un guizzo di buonumore. Le amiche cercano di distrarla, con questa catena di messaggini vocali. I cuoricini fioccano su WhatsApp e Instagram. Vittoria, la sua amica del cuore, diverte anche me. Ha una voce placida, un eloquio di grande proprietà infarcito con occasionali parolacce che ti fanno sobbalzare. A volte dà l’idea di una martire: l’hanno eletta rappresentante di classe, non propriamente una passeggiata. Guai se non possiedi doti manovriere da vecchio diplomatico.
A volte si ritrova fra le pretese dei docenti e le impuntature dei compagni come fra incudine e martello. Difficile comporre l’inconciliabile. Portata all’esasperazione, in questi casi sbotta (quantomeno con Clara, la sua confidente privilegiata). Diversamente questa Vittoria mi sembra posata, ed auto-ironica: non per nulla si definisce come una diciassettenne abitata, però, dallo spirito di una novantenne. Ho motivo di credere che, di base, sia una buffona; non nego che l’altruismo dei clown mi piace. Adesso, per esempio, lei sta cercando al telefono di divertire Clara, la fa scoppiare a ridere di gusto. Il mio sospiro di sollievo. Deresponsabilizzato, posso arretrare nell’ombra, rientrare nella mia doppia vita. Ripenso
alla mia giovane amica, la Catechista. Mi sembra di rivederla quando si scandalizza dopo essersi rivestita. Quando rassetta la gonna, si rifà il trucco e, una volta ricomposta, si sente in grado di trinciare giudizi.
«Non lo so veramente come ci riesci. Esci da una vita, entri nell’altra. Per te è come passare attraverso la porta girevole di un hotel».
Riprova la mia condotta, in realtà rimproverando se stessa e la sua debolezza che la rende incapace di troncare il nostro legame (un rapporto, per di più, scevro da sfumature sentimentali). Ma questo non lo ammetterebbe mai, la Catechista: non è abbastanza introspettiva. E dunque, a cose fatte, mette su quel piglio da moralista che condanna me per assolvere la sua pudibonda coscienza. La conforta, evidentemente, pensarmi come un mostro di amoralità e di doppiezza. Potrei controbattere, affondando nei suoi punti deboli.
«Sei una catechista. Dovresti dare il buon esempio invece di rotolarti in un letto con un uomo sposato. Ed essendo tu fidanzata da (troppi) anni. Certo, il tuo bello piace a mamma. Penso dovrebbe piacere un po’ di più alla diretta interessata...».
Non replico mai, invece. Ciò nonostante la Catechista si inalbera: «un giorno avrò una mia famiglia». Sottinteso: «con un uomo che non somiglierà a te. Un marito vero e tutto per me. Un buon padre».
L’astio la rende sexy. Ha dei bei fianchi e quei seni pesanti, tutti da mungere. Vederli ballonzolare non è estetico, ma decisamente erotico.
«Che si fa adesso?».
Clara ha smesso di vagare per casa con il cellulare all’orecchio. È venuta a snidarmi.
«Che si fa... che si fa...», prendo tempo, devo spogliarmi dai panni di un personaggio e calzare la maschera opposta.
«Scarabeo. Oppure Cluedo», le propongo. Clara si acciglia, davanti alla mia slealtà: «A scarabeo parti avvantaggiato!». Partire avvantaggiati, avere sempre una mossa di vantaggio. Arruffo i capelli di mia figlia: «quando avremo i risultati festeggiamo. Dove ti piacerebbe andare a mangiare?».
Esco da un personaggio, entro nell’altro come nulla fosse (difatti io sono niente, tutto è niente. Non sono un nichilista, ma una nullità). Penso al mio grande disordine. Rivedo tutti questi anni: sono trascorsi come un sogno.
Clara
A sei anni aveva una capigliatura fiabesca colore del grano e viveva come nelle fiabe