Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Non tutti i problemi possono essere risolti da un giudice
Chiarimenti preliminari. Sono stati presentati al Tar Campania due ricorsi con cui si è chiesto che in via d’urgenza si sospendesse l’ordinanza n. 79 del 2020 del Presidente De Luca che disponeva che in tutte le scuole dell’infanzia fosse sospesa l’attività didattica ed educativa, ove incompatibile con lo svolgimento da remoto, e la sospensione nelle scuole primarie e secondarie delle attività didattiche ed educative in presenza.
Nelle more è stata adottata l’ordinanza n. 80/2020 che ha revocato l’ordinanza n. 79 nella parte relativa alle attività didattiche in presenza per la scuola dell’infanzia (fascia 0-6 anni). In risposta ai ricorsi il giudice amministrativo è stato chiamato ad emanare provvedimenti di cautela (ossia a dare uno «stop» temporaneo al provvedimento impugnato, che è oggi quello sulle scuole primarie e secondarie), valutando il pregiudizio dei ricorrenti e facendo una valutazione preliminare della fondatezza del ricorso. Una prima cautela può essere disposta dal giudice monocratico se c’è «estrema gravità ed urgenza»; vi è una fase successiva, sempre cautelare, in cui un collegio di tre magistrati stabilisce, con maggiore approfondimento, se il primo provvedimento meriti di essere tenuto fermo o se vada corretto.
Queste due fasi sono caratterizzate da una valutazione di verosimiglianza. Il giudizio di merito, in cui il giudice valuterà «funditus», ossia con cognizione piena la questione, è successivo.
I provvedimenti emessi ieri dal giudice monocratico del Tar sono quelli che dovevano stabilire se ricorressero i presupposti della «estrema gravità ed urgenza» per sospendere l’efficacia del provvedimento del Presidente De Luca per la parte residua (come si è detto, lo stesso Presidente ha revocato la parte relativa alla scuola per l’infanzia).
Il giudice amministrativo, nell’ambito del sindacato da condurre nella fase cautelare di «estrema urgenza», ha ritenuto che merita prevalenza l’interesse pubblico sotteso alla necessità di tutelare la salute, messa in pericolo dalla diffusività esponenziale del contagio e dalla progressiva saturazione delle strutture di ricovero e cura su base regionale (con un riferimento anche alla scarsità delle risorse). Ha inoltre rilevato che i diritti dei cittadini per effetto dell’ordinanza subiscono una compromissione che «non sembra affatto assoluta» sia perché comunque è garantita la didattica a distanza sia perché non è stata dimostrata l’impossibilità di contemperare le attività lavorative degli esercenti la potestà dei genitori con la dovuta assistenza ai figli.
Ha, infine, sottolineato che, per così dire, si naviga a vista, in quanto la stessa autorità regionale ha manifestato l’impegno a «rimodulare» l’ordinanza in relazione all’andamento dell’epidemia e alle indicazioni dell’Unità di crisi (il che, secondo il giudice, «dequota» il pregiudizio).
Non mi interessa discutere il provvedimento, che, peraltro, mi sembra corretto. Ciò di cui dobbiamo discutere è la vicenda complessiva. A febbraio il Covid ci colse di sorpresa ed eravamo impreparati. A settembre, già da tempo, eravamo ben consapevoli che avremmo corso rischi per la «diffusività esponenziale del contagio» che avrebbero messo in crisi le strutture sanitarie (oggi è bene non ammalarsi, perché le strutture operano quasi esclusivamente in funzione della necessità di fronteggiare la pandemia).
La domanda da porci è se, avendo avuto svariati mesi per attrezzarci, abbiamo fatto quanto era possibile per andare avanti e se, non avendolo fatto, abbiamo qualche idea da mettere in pratica. Parlo di «andare avanti» a ragion veduta. Ci dobbiamo, infatti, convincere che per un tempo imprecisato dovremo convivere con la pandemia e che, forse, neppure il vaccino, quando arriverà, ci risolverà il problema in maniera definitiva.
E poiché non è possibile «andare avanti» con i divieti, è necessario che chi ci governa — a livello nazionale, prima ancora che locale — studi modi di vita in cui sia possibile lo svolgimento delle normali attività, convivendo con il Covid e limitandone al massimo i rischi e che,
soprattutto, spenda per strutture adeguate (penso, in particolare, al disastro dei trasporti locali). Mi sembra che brancoliamo nel buio e che allo stato manchi un progetto sul nostro futuro, ma soprattutto sul futuro delle giovani generazioni (ho smesso di ascoltare gli appelli alla nazione del nostro Presidente del Consiglio, che mi sembra l’imitazione del pifferaio di Hamelin; ma spero che non facciamo la stessa fine).
Ho nipoti giovani che mi dicono che il Covid sta loro rubando gli anni più belli e, sentendoli, mi si stringe il cuore.
Se questo è il mondo in cui viviamo, è facile comprendere che ricorriamo al giudice per disperazione o per la diffusa propensione a ritenere che tutto sia giustiziabile e per la speranza che il giudice possa risolvere qualsiasi problema, così trasferendo su di lui compiti e poteri che dovrebbero spettare a chi abbiamo eletto per governare. Ahimè, non tutti i problemi possono essere risolti dal giudice. Il troppo diritto e la troppa giustizia (mi sono stancato di ripeterlo) sono fenomeni distorsivi. Aggravano la situazione. Chi amministra deve potere sbagliare (ovviamente in buona fede, perché se lo facesse per fini personali sarebbe un comune delinquente). E se sbaglia saranno gli elettori a giudicarlo. Quando è costretto ad agire sotto l’incubo dell’intervento giudiziario, se è pavido terrà comportamenti che mescoleranno la cura dell’interesse pubblico con quella volta a scansare responsabilità o a scaricarle sugli altri; se ostenta coraggio, dovrà continuamente misurarsi con gli interventi dell’autorità giudiziaria, che gli renderà meno facile la realizzazione dei suoi obiettivi (giusti o sbagliati che siano); nell’uno e nell’altro caso gli si fornirà, dinanzi alla pubblica opinione, un alibi per giustificare la sua eventuale incapacità o inefficienza.
Il Tar, nella camera di consiglio di novembre — credetemi — non potrà risolvere il problema dell’organizzazione scolastica durante la pandemia. Spero che per quella data chi ci governa abbia almeno elaborato un programma operativo accettabile che consenta soprattutto ai giovani di continuare a «vivere».