Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«Fenomenologia» degli Squallor
Domenica scorsa l’addio all’ultimo componente del gruppo napoletano di culto Dissacrando, plasmarono una generazione interclassista, una vera «Giovane Italia» Alla pesantezza degli «anni di piombo» risposero con la leggerezza del paradosso
Èun’epoca volgare, niente a che vedere coi pugni degli Squallor. E sì, oggi persino il celebre scambio di Arrapaho - «Dimmi Capo di Bomba a chi vuoi più bene, a mamà o a papà?». «A Pippo Baudo!» – verrebbe cambiato in postproduzione: «Con chi ti interfacci, genitore uno o genitore due?». Non è periodo di delizie Squallor questo, il gruppo di «amici miei» della canzone italiana che dopo la morte di Alfredo Cerruti, domenica scorsa, andrebbe scolpito su un nostro italianissimo Monte Rushmore (facciamo sul Taburno?). Quattro facce di bronzo: Cerruti, appunto, con Daniele Pace, Giancarlo Bigazzi e Totò Savio.
Prendiamo gli ultimi due, uno dalla Toscana l’altro da Napoli ossia l’idioma nazionale e il suo ramo d’oro musicale, compenetrati come lo saranno Roberto Benigni e Massimo Troisi. Il primo dava il là: «Pensa a un camionista che ha nostalgia di casa»; il secondo disponeva in dialetto, la lingua della verità: «Vaco facenno ‘o camionista, trasporto ‘e suonni ‘e sta città». Prendiamo invece Cerruti, scopritore di talenti – primo successo fu il lancio di Cochi e Renato, da napoletano capì la levitas meneghina – rabdomante e stravagante alla maniera di Caccioppoli.
Nei dischi, da «Troia» (1973) in poi, seghettava la voce per ottenere un’inflessione tipo «riusciranno i nostri eroi». Viveur, si fece firmare una lettera da Ladislao Sugar, patron dell’etichetta discografica Cgd, per non entrare in azienda mai prima delle 14, in ciò seguace del precetto di Totò secondo cui di mattina non si può far ridere.
Daniele Pace, origini pugliesi, voce calda, che sotto un piano à la Jacques Brel declamava «si sdraiò per terra e si fece camminare su da un camion con rimorchio/ma non si fece male/aveva con sé un portafortuna che gli aveva regalato sua zia Waller».
Cultura vastissima, tutti e quattro. Il vero nodo per cui tanti progetti contemporanei, validi ma «sanza lettere», partono già scarsi a benzina. Chi ignora che serva conoscenza per dire «toro nelle mutande» ignorerà che nel monologo di «Berta» suona un violino che ricalca le Csàrdàs di Vittorio Monti. È la grande padronanza a fare la differenza, la stessa che farà durare il successo di altri demenziali da 30 e lode come gli Skiantos o Elio e le Storie Tese.
Gli Squallor iniziarono la goliardia negli anni di piombo e la risposta al chiummo del «privato è politico» fu la lotta armata delle parolacce, guerriglia estetica che affossava i codici cattolici e marxisti e che zitto zitto attraverso i dischi formò tra i ragazzi del tempo una Giovine Italia che resisteva con le maleparole.
Spesso hanno ribadito nelle rare interviste - ottimo il documentario sul gruppo di Michele Rossi e Carla Rinaldi – che nel comporre «si divertivano». Ma è una semplificazione: divertirsi è la premessa ma la creazione pretende quell’onesto senso di oscurità che dà consistenza alle risate e che brilla nella commedia dell’Arte come nella commedia all’italiana.
Centra il punto Enzo Gragnaniello: «Nel buco nero c’era la poesia». Come salutare i lettori adeguatamente? Fu, ci pare, Elio Gariboldi che ascoltando il secondo album «Palle» frenò: «Troppo volgare». Partì una voce: «Fatti ‘e cazzi tuoi».