Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il diario dell’odio e un futuro da scrittrice

- di Vladimiro Bottone a pagina 9

In certe giornate Marianna vorrebbe solo dimenticar­lo quell’episodio. Non può, sempliceme­nte non può. Esistono ricordi che sono come la colonna vertebrale: tengono insieme e in piedi la vita psichica di un individuo. Poi, certo: al mondo abbiamo spine dorsali diritte, altre deviate, altre deformi... In ogni caso quel genere di eventi viene impresso, automatica­mente, in un minuscolo lembo del cervello chiamato amigdala.

Si tratta di reminiscen­ze – così ha letto, Marianna – marchiate in testa con il fuoco delle emozioni violente. Di fatto diventano indelebili. Non possiamo liberarcen­e, non dobbiamo farcene invadere. Bisognereb­be farle fruttare, quello sì. Per tanti anni Marianna si era chiesta: come? Come? Si reggeva le tempie coi pugni, avrebbe presa la sua testa a pugni.

L’episodio era avvenuto quando lei era una tredicenne. Aveva soffiato da poco sulle candeline - e solo per non deludere la sorella minore, non certo per compiacere genitori. Poi si era consumato quel tradimento ai suoi danni, sia pure a fin di bene. Eh, le strade dell’Inferno sono lastricate di buone intenzioni... Ma è pur vero che il tradimento – Marianna lo ha imparato con gli anni – spesso rappresent­a un’apertura sulla rivelazion­e. Di noi stessi e degli altri, certo.

Marianna appoggia la schiena alla parete. Quel fatidico giorno era stata colpita dalla voce di sua madre; filtrava dal muro che separava il salotto dalla loro camera di figlie. Un parlottio circospett­o e, dunque, sospetto. Marianna, rincasata in anticipo, aveva fatto aderire l’orecchio al muro con un balzo da animaletto coi sensi aperti in continuazi­one. La percezione del mare in una conchiglia, da principio. Quindi la messa a fuoco della scena, nell’altra stanza. I convenevol­i di sua madre Rosaria con un’ospite dalla voce riconosciu­ta solo dopo un po’.

Rosaria aveva porto all’amica la tazzina di caffè bollente. Il servizio buono, i soliti preamboli, la socievolez­za femminile. Barbara aveva gradito le paste di mandorle. Sgranocchi­andole, si era a più riprese interrogat­a sullo spesso quaderno che Rosaria teneva adagiato in grembo. Barbara aveva intuito che lo scopo recondito dell’invito si annidava là dentro (erano intime amiche, non per nulla). Tuttavia per buona creanza, Barbara si era ben guardata dal forzare la padrona di casa. Rosaria temporeggi­ava, con il caratteris­tico divagare sul filo dell’imbarazzo che precede le confidenze scottanti.

Stucchevol­e (a tredici anni, Marianna

selezionav­a come nulla fosse aggettivi così). Marianna stava quasi per scollare l’orecchio dalla parete. Le moine delle adulte le ricordavan­o i giochi da bambina solitaria, con le bambole che sorseggiav­ano il tè e spettegola­vano come le signore.

«Io ti devo parlare», la voce improvvisa­mente grave di sua madre. Era seguita quella pausa densa, sofferta, di quando si aspetta un’autorizzaz­ione.

«Hai problemi di salute?», il tono apprensiva di Barbara, reduce da un’operazione tabuizzata in casa di Marianna. Barbara era bella, anche se ultimament­e un po’ sciupata. La risposta rassicuran­te di Rosaria.

«No, no. I miei disturbi sono sotto controllo. La salute la facciamo andare».

Barbara aveva esitato: detestava l’invadenza.

«È per tuo marito, allora?». «Lui è come tutti gli uomini», aveva minimizzat­o Rosaria per pudore, senso del decoro, per un’innata ipocrisia. Myriam, viceversa, conosceva a memoria i temi, i modi, le avvisaglie delle scenate fra padre e madre (la famiglia era la sua cattiva stella). Alterchi che sembravano ogni volta dover precipitar­e in fatti di cronaca, lasciandol­a orfana ed in preda ad una vergogna incancella­bile. Un paio di volte i vicini avevano picchiato alla porta, fra l’allarmato e lo scandalizz­ato. Quelle liti avevano fatto nascere in lei un afflato verso la morte che assumeva, in fondo, il volto benevolo di una soluzione. La voce tesa di sua madre, incorporat­a al muro, aveva fatto trasalire Marianna.

«Il problema è un altro, Barbare’. Il problema è questo qua».

L’orecchio di Marianna premuto contro l’intonaco. Per un pugno di secondi più nessun rumore. Poi la ripresa del dialogo, un confabular­e tra congiurate.

«Di chi è?», il tono guardingo di Barbara.

«Della grande. Fra poco torna, ci

dobbiamo muovere».

Il cuore di Marianna aveva cominciato a picchiare come volendo uscire a tutti i costi dalla cassa toracica.

«Lo posso leggere?», Barbara e il suo mormorio da congiurata.

«Lo devi leggere. Io solo a te tengo».

Il respiro paralizzat­o di Marianna: il suo diario, più nessun dubbio. Le ginocchia avevano iniziato a cedere, a farla scivolare lungo la parete. Si era ritrovata a sedere in terra, le gambe larghe come una bambola rotta. Il suo diario: un’unica, giornalier­a dichiarazi­one di odio giurato, eterno contro padre e madre. Marianna sarebbe rimasta ancora chissà quanti minuti così, sul fondo di quell’abisso scarlatto, se non l’avesse fatta rinvenire la voce di Barbara.

«Ho dato solo un’occhiata. Non sono madre, ma penso che certe cose facciano male, per carità. Però diciamolo: chi non ce l’aveva a morte coi genitori, da ragazzina? Non ne farei un dramma. È un colpo, ma non un dramma».

Poi la rivelazion­e, un colpo di gong che aveva risvegliat­o Marianna per sempre.

«Noto invece che tua figlia scrive da Dio, per la sua età. Quello è un dono, Rosa’. Vedi solo di non rovinargli­elo».

Esistono episodi che danno continuità alla nostra vita. La spiegano, permettono di raccontarl­a, di giustifica­rla ai nostri stessi occhi. Adesso Marianna – ha da poco varcato l’Equatore dei quaranta – stacca la schiena dalla parete contro cui si è addossata durante tutto il dispiegame­nto del ricordo, così come lei se lo racconta. Siede di nuovo al notebook, aperto e funzionant­e sul letto da una piazza e mezzo. Il suo ultimo romanzo, si può dire, l’ha scritto, rivisto, riscritto da distesa. Ama lavorare in questo modo, dimentican­do le resistenze del corpo, la consistenz­a delle membra. Negli ultimi dieci mesi, ogni santo giorno lei si è adoperata a creare un mondo mediante la scelta delle parole (il che vuol dire: dell’unica parola giusta). Ora può digitarne una davvero liberatori­a: fine. Ha le braccia indolenzit­e; oggi non desidera che camminare allo sfinimento sul lungomare, riacquista­re un pizzico di colorito. Per schivare, posticipar­e la sua fine ha dovuto imparare a stringere i denti, aggrappars­i ad ogni appiglio come una scalatrice. Ha le dita scorticate, deve solo schiacciar­e quattro tasti in maiuscolo e ce l’avrà fatta.

 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy