Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Perché il teatro deve rinnovarsi per (ri)vivere
Sul modello di ciò che è stato fatto al Piccolo di Milano, alla Biennale di Venezia e in Emilia Romagna, il teatro deve ora rinnovarsi per (ri)vivere. E puntare su giovani e ricerca. Svecchiare i cartelloni, aprendoli ai giovani autori e registi, è una necessità imprescindibile. Non sotto specie di qualche contentino economico elargito sulla base della solita generosità di facciata, buona, nella migliore delle ipotesi, soltanto a salvarsi la coscienza, ma inserendo quei giovani nei cartelloni a pari livello con i loro colleghi già affermati.
«Il compito delle donne e degli uomini di cultura è quello di immaginare e di trovare strade diverse, creative, per vincere le sfide che la realtà ci impone: reclamare il perpetuarsi dei soliti riti significa o non capire la realtà o non avere abbastanza creatività e abbastanza fiducia nei contenuti della cultura».
Ecco, oggi parto da quest’osservazione, condivisibilissima, di Alessandro Perissinotto. Per proporre un articolo sul teatro costituito, sostanzialmente, da domande ai teatranti. Domande che nascono da un’inevitabile constatazione: durante il lockdown e dopo la nuova chiusura dei teatri, s’è offerta ai teatranti, e giusto in conseguenza di quegli arresti forzati della loro attività, l’occasione preziosa e forse irripetibile per riflettere sullo stato e, quindi, sulle prospettive del teatro; e invece, per l’ennesima volta, i teatranti si son persi nella contemplazione del proprio ombelico, prigionieri dell’ormai implausibile mistica che li porta a insistere sulla capacità del teatro di risorgere dalle proprie ceneri, come la leggendaria Fenice, senza mai chiedersi quale sia il teatro che da quelle, in teoria, dovrebbe risorgere.
Da parte mia, non fornirò risposte, mi limiterò a ribadire quanto in più circostanze ho scritto circa lo stato dei fatti. E allo scopo di lasciare spazio alla massima chiarezza possibile, darò all’articolo che segue una forma assai schematica, dividendolo in capitoletti.
Il pubblico
A quale pubblico si rivolgono i teatranti, a quello reale, composto dagli spettatori che effettivamente siedono nelle poltrone, o a quello virtuale, composto dagli spettatori che esistono solo nella loro mente (o, meglio, nei loro sogni e nelle loro illusioni)?
Il pubblico reale - lo sappiamo tutti, ma evitiamo accuratamente di rilevarlo - è composto nella grande maggioranza da anziani, la grande maggioranza dei quali dubito fortemente che sappia di Beckett o di Pinter e, soprattutto, sia in grado di capire una virgola purchessia delle cervellotiche elucubrazioni, soltanto ai loro occhi risplendenti della luce del genio, che circa Beckett o
Pinter i teatranti vanno troppo spesso sciorinando.
Dove sono i giovani, che, per l’appunto, dovrebbero rappresentare il futuro del teatro? Certo non ci possiamo accontentare delle scolaresche che a teatro vengono non portate ma deportate. Io li sento i loro commenti all’uscita. E una volta, al Mercadante, capitato a metà sala fra quei ragazzi (non era la «prima» e, perciò, non occupavo il mio solito posto più avanti), nell’intervallo - si rappresentava, mi pare, un Goldoni - presi a interrogarli. Per quali motivi erano venuti a vedere lo spettacolo in questione? La risposta, invariabile, fu che erano venuti solo perché invogliati o, più esattamente, costretti dagli insegnanti.
Sullo sfondo, poi, c’è - in generale - il drammatico fenomeno dell’analfabetismo di ritorno, con la conseguenza che per una percentuale altissima di italiani (lo denunciò, già molti anni addietro, un’autorità del calibro di Tullio De Mauro) un testo qualsiasi, anche un semplice articolo di giornale, risulta del tutto incomprensibile. E allora, come la mettiamo con la «magia», il «rinsaldarsi del vincolo comunitario» e «l’irrinunciabile incontro e scambio tra palcoscenico e platea» di cui, a proposito della necessità del teatro, in questi giorni abbiamo letto e sentito fino alla noia?
Le sovvenzioni
Fermo restando il sacrosanto diritto dei lavoratori dello spettacolo a veder garantita la propria sopravvivenza (ciò che, beninteso, vale per ogni tipo di lavoratore), occorre sgombrare il terreno dall’ipocrisia e dalla malafede. Che la cultura vada sostenuta con finanziamenti pubblici è fuori discussione. Ma il punto è: quanti e quali dei teatri oggi operanti e quanti e quali degli spettacoli che ospitano sono riconducibili alla cultura, che d’altronde sempre più somiglia, anch’essa, alla Fenice, quella di metastasiana memoria («che vi sia, ciascun lo dice; / dove sia, nessun lo sa»)? e perché si debbono somministrare iniezioni di danaro pubblico a teatri che di pubblico non ne hanno invece di spendere quel danaro per somministrare iniezioni di farmaci sperabilmente salvifici ai malati ricoverati nei reparti di terapia intensiva?
Al riguardo, voglio essere oltremodo preciso, pur senza fare nomi in omaggio alla proverbiale carità di patria. Io, più d’una volta, sono stato l’unico spettatore presente alle «prime», e proprio in qualcuno dei teatri che subito dopo il lockdown si sono messi in mostra proclamando ai quattro venti che avrebbero riaperto anche se costretti a rinunciare a occupare la metà dei loro posti disponibili e a ridurre di molto il prezzo del biglietto. Ma di quali metà e di quali prezzi cianciavano? La verità è che il ricavato della vendita dei biglietti costituisce una voce assolutamente trascurabile del bilancio dei teatri. La verità è che, se non fossero sostenuti dai finanziamenti pubblici, i teatri chiuderebbero, tutti, nel giro di una settimana. Le novità
Aggiungo, adesso, qualche altro particolare circa il discorso che ho già fatto su questo giornale riguardo alla necessità imprescindibile di svecchiare i cartelloni, aprendoli ai giovani autori e registi. Intendo che vanno aperti non sotto specie di qualche contentino economico elargito sulla base della solita generosità di facciata, buona, nella migliore delle ipotesi, soltanto a salvarsi la coscienza, ma inserendo quei giovani nella programmazione a pari livello con i loro colleghi già affermati. Solo così può essere assicurato un fruttuoso scambio di idee, sul terreno dell’esperienza da una parte e dell’entusiasmo dall’altra.
Abbiamo davanti agli occhi quello che in proposito vanno realizzando istituzioni culturali di prestigio assoluto quali il Piccolo di Milano e la Biennale di Venezia. Il primo, finita l’era Escobar, ha chiamato alla direzione Claudio Longhi, reduce da quattro anni in cui, alla guida di Emilia Romagna Teatro, ha dato spazio, con illuminata lungimiranza, alle più avanzate espressioni del teatro di ricerca, italiane e internazionali; e la seconda ha dato continuità all’era di Antonio Latella, vessillifero di un teatro fondato sulla verità estrema del corpo contro ogni lenocinio della parola, chiamando a succedergli la coppia formata da Stefano Ricci e Gianni Forte.
Mi limito a ricordare, di questi ultimi, «Macadamia Nut Brittle»: uno spettacolo che consisteva nell’esposizione a rotta di collo dell’intero catalogo dei riti, delle mitomanie, dei tic, delle mode, delle fughe, degl’incubi e delle coazioni a ripetere che costituiscono l’indotto della quotidianità odierna; e uno spettacolo in cui s’inseguivano e s’accavallavano, poniamo, i discount, le maschere dei Simpson, il Grande Fratello, il linguaggio rattrappito degli sms, il fitness e gli stereotipi imposti dai media, nel solco di una tremenda energia fisica che implodeva e
”
La domanda
Gli spettatori sono quelli sulle poltrone o quelli virtuali che esistono solo nella mente dei teatranti?
”
La «sentenza»
Se non fossero sostenute dai fondi pubblici, le sale chiuderebbero, tutte, nel giro di una settimana
sulla traccia di un’impassibile crudeltà che balbettava.
La conclusione
L’affido a due citazioni. La prima, più ovvia, si riferisce all’«Apologia di Socrate» di Platone: «Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta»; e la seconda, assai meno scontata ma non meno pertinente, consiste nella frase che, in «Casino totale» di Jean-Claude Izzo, il disincantato ex poliziotto Fabio Montale dice al suo amore perduto Lole: «Ci si accontenta sempre più facilmente. Un giorno, ci si accontenta di tutto. E si crede di aver trovato la felicità».