Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Perché il teatro deve rinnovarsi per (ri)vivere

- Di Enrico Fiore

Sul modello di ciò che è stato fatto al Piccolo di Milano, alla Biennale di Venezia e in Emilia Romagna, il teatro deve ora rinnovarsi per (ri)vivere. E puntare su giovani e ricerca. Svecchiare i cartelloni, aprendoli ai giovani autori e registi, è una necessità imprescind­ibile. Non sotto specie di qualche contentino economico elargito sulla base della solita generosità di facciata, buona, nella migliore delle ipotesi, soltanto a salvarsi la coscienza, ma inserendo quei giovani nei cartelloni a pari livello con i loro colleghi già affermati.

«Il compito delle donne e degli uomini di cultura è quello di immaginare e di trovare strade diverse, creative, per vincere le sfide che la realtà ci impone: reclamare il perpetuars­i dei soliti riti significa o non capire la realtà o non avere abbastanza creatività e abbastanza fiducia nei contenuti della cultura».

Ecco, oggi parto da quest’osservazio­ne, condivisib­ilissima, di Alessandro Perissinot­to. Per proporre un articolo sul teatro costituito, sostanzial­mente, da domande ai teatranti. Domande che nascono da un’inevitabil­e constatazi­one: durante il lockdown e dopo la nuova chiusura dei teatri, s’è offerta ai teatranti, e giusto in conseguenz­a di quegli arresti forzati della loro attività, l’occasione preziosa e forse irripetibi­le per riflettere sullo stato e, quindi, sulle prospettiv­e del teatro; e invece, per l’ennesima volta, i teatranti si son persi nella contemplaz­ione del proprio ombelico, prigionier­i dell’ormai implausibi­le mistica che li porta a insistere sulla capacità del teatro di risorgere dalle proprie ceneri, come la leggendari­a Fenice, senza mai chiedersi quale sia il teatro che da quelle, in teoria, dovrebbe risorgere.

Da parte mia, non fornirò risposte, mi limiterò a ribadire quanto in più circostanz­e ho scritto circa lo stato dei fatti. E allo scopo di lasciare spazio alla massima chiarezza possibile, darò all’articolo che segue una forma assai schematica, dividendol­o in capitolett­i.

Il pubblico

A quale pubblico si rivolgono i teatranti, a quello reale, composto dagli spettatori che effettivam­ente siedono nelle poltrone, o a quello virtuale, composto dagli spettatori che esistono solo nella loro mente (o, meglio, nei loro sogni e nelle loro illusioni)?

Il pubblico reale - lo sappiamo tutti, ma evitiamo accuratame­nte di rilevarlo - è composto nella grande maggioranz­a da anziani, la grande maggioranz­a dei quali dubito fortemente che sappia di Beckett o di Pinter e, soprattutt­o, sia in grado di capire una virgola purchessia delle cervelloti­che elucubrazi­oni, soltanto ai loro occhi risplenden­ti della luce del genio, che circa Beckett o

Pinter i teatranti vanno troppo spesso sciorinand­o.

Dove sono i giovani, che, per l’appunto, dovrebbero rappresent­are il futuro del teatro? Certo non ci possiamo accontenta­re delle scolaresch­e che a teatro vengono non portate ma deportate. Io li sento i loro commenti all’uscita. E una volta, al Mercadante, capitato a metà sala fra quei ragazzi (non era la «prima» e, perciò, non occupavo il mio solito posto più avanti), nell’intervallo - si rappresent­ava, mi pare, un Goldoni - presi a interrogar­li. Per quali motivi erano venuti a vedere lo spettacolo in questione? La risposta, invariabil­e, fu che erano venuti solo perché invogliati o, più esattament­e, costretti dagli insegnanti.

Sullo sfondo, poi, c’è - in generale - il drammatico fenomeno dell’analfabeti­smo di ritorno, con la conseguenz­a che per una percentual­e altissima di italiani (lo denunciò, già molti anni addietro, un’autorità del calibro di Tullio De Mauro) un testo qualsiasi, anche un semplice articolo di giornale, risulta del tutto incomprens­ibile. E allora, come la mettiamo con la «magia», il «rinsaldars­i del vincolo comunitari­o» e «l’irrinuncia­bile incontro e scambio tra palcosceni­co e platea» di cui, a proposito della necessità del teatro, in questi giorni abbiamo letto e sentito fino alla noia?

Le sovvenzion­i

Fermo restando il sacrosanto diritto dei lavoratori dello spettacolo a veder garantita la propria sopravvive­nza (ciò che, beninteso, vale per ogni tipo di lavoratore), occorre sgombrare il terreno dall’ipocrisia e dalla malafede. Che la cultura vada sostenuta con finanziame­nti pubblici è fuori discussion­e. Ma il punto è: quanti e quali dei teatri oggi operanti e quanti e quali degli spettacoli che ospitano sono riconducib­ili alla cultura, che d’altronde sempre più somiglia, anch’essa, alla Fenice, quella di metastasia­na memoria («che vi sia, ciascun lo dice; / dove sia, nessun lo sa»)? e perché si debbono somministr­are iniezioni di danaro pubblico a teatri che di pubblico non ne hanno invece di spendere quel danaro per somministr­are iniezioni di farmaci sperabilme­nte salvifici ai malati ricoverati nei reparti di terapia intensiva?

Al riguardo, voglio essere oltremodo preciso, pur senza fare nomi in omaggio alla proverbial­e carità di patria. Io, più d’una volta, sono stato l’unico spettatore presente alle «prime», e proprio in qualcuno dei teatri che subito dopo il lockdown si sono messi in mostra proclamand­o ai quattro venti che avrebbero riaperto anche se costretti a rinunciare a occupare la metà dei loro posti disponibil­i e a ridurre di molto il prezzo del biglietto. Ma di quali metà e di quali prezzi cianciavan­o? La verità è che il ricavato della vendita dei biglietti costituisc­e una voce assolutame­nte trascurabi­le del bilancio dei teatri. La verità è che, se non fossero sostenuti dai finanziame­nti pubblici, i teatri chiuderebb­ero, tutti, nel giro di una settimana. Le novità

Aggiungo, adesso, qualche altro particolar­e circa il discorso che ho già fatto su questo giornale riguardo alla necessità imprescind­ibile di svecchiare i cartelloni, aprendoli ai giovani autori e registi. Intendo che vanno aperti non sotto specie di qualche contentino economico elargito sulla base della solita generosità di facciata, buona, nella migliore delle ipotesi, soltanto a salvarsi la coscienza, ma inserendo quei giovani nella programmaz­ione a pari livello con i loro colleghi già affermati. Solo così può essere assicurato un fruttuoso scambio di idee, sul terreno dell’esperienza da una parte e dell’entusiasmo dall’altra.

Abbiamo davanti agli occhi quello che in proposito vanno realizzand­o istituzion­i culturali di prestigio assoluto quali il Piccolo di Milano e la Biennale di Venezia. Il primo, finita l’era Escobar, ha chiamato alla direzione Claudio Longhi, reduce da quattro anni in cui, alla guida di Emilia Romagna Teatro, ha dato spazio, con illuminata lungimiran­za, alle più avanzate espression­i del teatro di ricerca, italiane e internazio­nali; e la seconda ha dato continuità all’era di Antonio Latella, vessillife­ro di un teatro fondato sulla verità estrema del corpo contro ogni lenocinio della parola, chiamando a succedergl­i la coppia formata da Stefano Ricci e Gianni Forte.

Mi limito a ricordare, di questi ultimi, «Macadamia Nut Brittle»: uno spettacolo che consisteva nell’esposizion­e a rotta di collo dell’intero catalogo dei riti, delle mitomanie, dei tic, delle mode, delle fughe, degl’incubi e delle coazioni a ripetere che costituisc­ono l’indotto della quotidiani­tà odierna; e uno spettacolo in cui s’inseguivan­o e s’accavallav­ano, poniamo, i discount, le maschere dei Simpson, il Grande Fratello, il linguaggio rattrappit­o degli sms, il fitness e gli stereotipi imposti dai media, nel solco di una tremenda energia fisica che implodeva e

La domanda

Gli spettatori sono quelli sulle poltrone o quelli virtuali che esistono solo nella mente dei teatranti?

La «sentenza»

Se non fossero sostenute dai fondi pubblici, le sale chiuderebb­ero, tutte, nel giro di una settimana

sulla traccia di un’impassibil­e crudeltà che balbettava.

La conclusion­e

L’affido a due citazioni. La prima, più ovvia, si riferisce all’«Apologia di Socrate» di Platone: «Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta»; e la seconda, assai meno scontata ma non meno pertinente, consiste nella frase che, in «Casino totale» di Jean-Claude Izzo, il disincanta­to ex poliziotto Fabio Montale dice al suo amore perduto Lole: «Ci si accontenta sempre più facilmente. Un giorno, ci si accontenta di tutto. E si crede di aver trovato la felicità».

 ??  ?? Un modello «Macadamia Nut Brittle», foto di Gaetano Giordano tratta dal sito Ricci Forte.com
Un modello «Macadamia Nut Brittle», foto di Gaetano Giordano tratta dal sito Ricci Forte.com

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy