Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La ricerca della felicità

Nel giorno delle elezioni americane torna il dibattito sull’influenza del pensiero di Filangieri su Franklin e su quel singolare diritto sancito dalla Costituzio­ne statuniten­se

- Di Michelange­lo Iossa

«We the People of the United States», «Noi, popolo degli Stati Uniti»: per ogni americano questo è «The Preamble», «Il Preambolo» della Costituzio­ne firmata nel settembre del 1787 ed entrata in vigore nel 1789.

Per il pubblico televisivo globale «We the People» è anche la sequenza di parole sullo sfondo di quelli che i media hanno definito «i peggiori dibattiti della storia degli Stati Uniti d’America»: quelli tra Donald Trump e Joe Biden passeranno alla storia come i duelli televisivi meno apprezzati dal pubblico e dalla stampa internazio­nale. Kennedy e Nixon inauguraro­no i confronti catodici nel 1960 affrontand­o i temi del comunismo e della conquista dello spazio; sessant’anni più tardi, i candidati alla Casa Bianca si sono ritrovati a discutere di pandemia, di «Black Lives Matter» e di Obamacare.

Il 17 settembre del 1787 il futuro primo Presidente degli Stati Uniti, George Washington, scriveva al Presidente del Congresso un’accorata lettera con la quale sottoponev­a all’attenzione del Congresso il testo costituzio­nale: in quel messaggio, Washington affermava che l’obiettivo più alto era quello di «assicurare libertà e felicità» al Paese «che è così caro a noi tutti».

Quella parola — «felicità» — veniva da lontano, era il ponte con la Dichiarazi­one di Indipenden­za sottoscrit­ta a Philadelph­ia la sera del 4 luglio 1776: «Tutti gli uomini sono stati creati uguali (e) sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabi­li, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità». Questa frase venne concepita — sembra in sostituzio­ne del lockiano «diritto alla proprietà» — da Thomas Jefferson, che sarebbe diventato il terzo presidente degli Stati Uniti e sarebbe stato immortalat­o sul fianco del Monte Rushmore accanto ai volti di George

Washington, Theodore Roosevelt e Abraham Lincoln.

Spesso si fa risalire il temachiave della felicità consacrato nel primo testo fondativo degli Stati Uniti d’America alla figura di Gaetano Filangieri. Il dibattito è aperto ed il tema è stato spesso al centro di interpreta­zioni affrettate.

La felicità, com’è intesa da Filangieri, non è connessa soltanto alla sfera individual­e ma, in primo luogo, a quella collettiva; essa è «nazionale», «dei popoli». La felicità filangieri­ana costituisc­e il fine ultimo di ogni buon governo, perseguibi­le solo attraverso un sistema di leggi giusto: è quanto ricordi da Amedeo Melchionda, avvocato fallimenta­rista napoletano, da anni impegnato nella ricerca sui temi del riformismo politico, giuridico ed istituzion­ale del Mezzogiorn­o d’Italia nel XVIII secolo. «È utile precisare che il concetto di diritto alla ricerca della felicità non è stato trasmesso da Filangieri a Jefferson tout court», aggiunge Melchionda. «I due pare non si conoscesse­ro nemmeno. Per Jefferson la felicità era una ‘cosa individual­e’, non collettiva». Il tema della ricerca della felicità era ampiamente discusso in tutta l’Europa dei Lumi e nel circuito massonico che fungeva, spesso, da veicolo trasmissio­ne delle idee e da collante della comunità intellettu­ale. Filangieri e Jefferson erano, evidenteme­nte, «figli del loro tempo».

La relazione tra Gaetano Filangieri e Benjamin Franklin, è, invece, documentat­a e sensibilme­nte più profonda, come dimostra la loro corrispond­enza epistolare degli anni 17811788: «È corretto affermare», precisa Melchionda, che sta lavorando a una nuova edizione del catalogo del fondo antico della sua biblioteca privata, «che Filangieri ha esercitato un’influenza non trascurabi­le su Franklin e che quest’ultimo aveva ben chiari alcuni temi sviluppati ne La Scienza della

legislazio­ne, pubblicata a partire dal 1780, allorquand­o partecipò alla stesura della Costituzio­ne americana del 1787».

Da quel «We the People» costituzio­nale, la parola «felicità» ha assunto, dunque, una valenza straordina­ria nell’identità collettiva, non solo statuniten­se. La felicità «è diventata un’espression­e chiave della modernità, atteso che la cultura dell’età moderna si è posta come obiettivo nuovo quello di trasformar­e il sogno della felicità - la bonheur della Dichiarazi­one dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e del 1793 - in realtà politica», conclude Melchionda.

A distanza di quasi duecentoci­nquant’anni da quelle solenni dichiarazi­oni, la felicità sembra risiedere in quel principio di relazione tra noi e gli altri: il benessere di ciascuno di noi è per natura connesso e conseguent­e a quello degli altri. Da qui la necessità che la felicità da «diritto» si trasformi in «dovere», in primo luogo a puntare su uno sviluppo equo e sostenibil­e e sulla tutela integrale dell’ambiente. Prendendo in prestito le parole di Umberto Eco, esisterebb­e «un diritto-dovere di ciascuno di noi di ridurre la quota d’infelicità nel mondo». Una sfida a cui Joe Biden o Donald Trump, da domani, dovranno rispondere.

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Lettera di Franklin a Gaetano Filangieri (conservata nel museo Filangieri) In alto, Trump e Biden e sullo sfondo scorre il testo della Costituzio­ne
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Filangieri Sotto, Franklin
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