Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La ricerca della felicità
Nel giorno delle elezioni americane torna il dibattito sull’influenza del pensiero di Filangieri su Franklin e su quel singolare diritto sancito dalla Costituzione statunitense
«We the People of the United States», «Noi, popolo degli Stati Uniti»: per ogni americano questo è «The Preamble», «Il Preambolo» della Costituzione firmata nel settembre del 1787 ed entrata in vigore nel 1789.
Per il pubblico televisivo globale «We the People» è anche la sequenza di parole sullo sfondo di quelli che i media hanno definito «i peggiori dibattiti della storia degli Stati Uniti d’America»: quelli tra Donald Trump e Joe Biden passeranno alla storia come i duelli televisivi meno apprezzati dal pubblico e dalla stampa internazionale. Kennedy e Nixon inaugurarono i confronti catodici nel 1960 affrontando i temi del comunismo e della conquista dello spazio; sessant’anni più tardi, i candidati alla Casa Bianca si sono ritrovati a discutere di pandemia, di «Black Lives Matter» e di Obamacare.
Il 17 settembre del 1787 il futuro primo Presidente degli Stati Uniti, George Washington, scriveva al Presidente del Congresso un’accorata lettera con la quale sottoponeva all’attenzione del Congresso il testo costituzionale: in quel messaggio, Washington affermava che l’obiettivo più alto era quello di «assicurare libertà e felicità» al Paese «che è così caro a noi tutti».
Quella parola — «felicità» — veniva da lontano, era il ponte con la Dichiarazione di Indipendenza sottoscritta a Philadelphia la sera del 4 luglio 1776: «Tutti gli uomini sono stati creati uguali (e) sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità». Questa frase venne concepita — sembra in sostituzione del lockiano «diritto alla proprietà» — da Thomas Jefferson, che sarebbe diventato il terzo presidente degli Stati Uniti e sarebbe stato immortalato sul fianco del Monte Rushmore accanto ai volti di George
Washington, Theodore Roosevelt e Abraham Lincoln.
Spesso si fa risalire il temachiave della felicità consacrato nel primo testo fondativo degli Stati Uniti d’America alla figura di Gaetano Filangieri. Il dibattito è aperto ed il tema è stato spesso al centro di interpretazioni affrettate.
La felicità, com’è intesa da Filangieri, non è connessa soltanto alla sfera individuale ma, in primo luogo, a quella collettiva; essa è «nazionale», «dei popoli». La felicità filangieriana costituisce il fine ultimo di ogni buon governo, perseguibile solo attraverso un sistema di leggi giusto: è quanto ricordi da Amedeo Melchionda, avvocato fallimentarista napoletano, da anni impegnato nella ricerca sui temi del riformismo politico, giuridico ed istituzionale del Mezzogiorno d’Italia nel XVIII secolo. «È utile precisare che il concetto di diritto alla ricerca della felicità non è stato trasmesso da Filangieri a Jefferson tout court», aggiunge Melchionda. «I due pare non si conoscessero nemmeno. Per Jefferson la felicità era una ‘cosa individuale’, non collettiva». Il tema della ricerca della felicità era ampiamente discusso in tutta l’Europa dei Lumi e nel circuito massonico che fungeva, spesso, da veicolo trasmissione delle idee e da collante della comunità intellettuale. Filangieri e Jefferson erano, evidentemente, «figli del loro tempo».
La relazione tra Gaetano Filangieri e Benjamin Franklin, è, invece, documentata e sensibilmente più profonda, come dimostra la loro corrispondenza epistolare degli anni 17811788: «È corretto affermare», precisa Melchionda, che sta lavorando a una nuova edizione del catalogo del fondo antico della sua biblioteca privata, «che Filangieri ha esercitato un’influenza non trascurabile su Franklin e che quest’ultimo aveva ben chiari alcuni temi sviluppati ne La Scienza della
legislazione, pubblicata a partire dal 1780, allorquando partecipò alla stesura della Costituzione americana del 1787».
Da quel «We the People» costituzionale, la parola «felicità» ha assunto, dunque, una valenza straordinaria nell’identità collettiva, non solo statunitense. La felicità «è diventata un’espressione chiave della modernità, atteso che la cultura dell’età moderna si è posta come obiettivo nuovo quello di trasformare il sogno della felicità - la bonheur della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e del 1793 - in realtà politica», conclude Melchionda.
A distanza di quasi duecentocinquant’anni da quelle solenni dichiarazioni, la felicità sembra risiedere in quel principio di relazione tra noi e gli altri: il benessere di ciascuno di noi è per natura connesso e conseguente a quello degli altri. Da qui la necessità che la felicità da «diritto» si trasformi in «dovere», in primo luogo a puntare su uno sviluppo equo e sostenibile e sulla tutela integrale dell’ambiente. Prendendo in prestito le parole di Umberto Eco, esisterebbe «un diritto-dovere di ciascuno di noi di ridurre la quota d’infelicità nel mondo». Una sfida a cui Joe Biden o Donald Trump, da domani, dovranno rispondere.