Corriere del Mezzogiorno (Campania)
In tanti pensano che la scuola rivesta un ruolo secondario
E, peggio, nessuno ritiene che sia uno dei più importanti fattori di cambiamento sociale
La scuola è ultima delle priorità? La domanda da porsi subito è quale significato assegniamo alla scuola. Secondo il mio punto di vista la scuola, meglio il fare scuola, è innanzi tutto una attività umana, ossia serve perché la persona diventi completamente umana, ossia diventi padrona di ogni sua facoltà, che cresca ed impari a crescere a godere della vita.
Una simile definizione — «la scuola serve a crescere» — è talmente banale da essere trascurata.
Tuttavia pone molti problemi, perché crescere secondo il proprio essere è potenzialmente in conflitto per molte delle opinioni correnti sulla scuola.
Che cosa succede se il mio desiderio entra in contrasto con quello dei genitori, con quello delle persone che contano nella società? Una scuola per sé non rischia di promuovere l’anarchia? Non rischiamo di perdere il controllo?
Ecco, se al primo posto c’è il problema del controllo, allora la scuola diventa un peso, un luogo dove arginare e frenare tendenze spontanee che sarebbero per definizione a-sociali o antisociali. Se invece penso che la scuola sia un luogo dove le energie giovanili, la tensione creativa tra l’essere ed il desiderio producono nuova ricchezza, un capitale sociale in grado di far crescere la felicità di tutti, allora la scuola non è un peso, ma un luogo in cui tutti e ciascuno devono investire.
Molti pensano che la scuola resti indietro perché non c’è una adeguata percentuale di Pil investita in essa.
Io penso che la scuola resti indietro perché ciascuno di noi non investe nella scuola e nei giovani le energie psichiche che i giovani meritano, e di conseguenza non c’è mai stata «occasione» di rivendicare la giusta percentuale del Pil. E ritengo anche che se in questo momento improvvisamente avessimo la percentuale giusta in realtà la questione del ruolo della scuola resterebbe praticamente intatta, perché continuerebbe ad avere un posto secondario nella vita e nei pensieri di milioni di persone compresi quelli che hanno i figli a scuola. Perché nessuno ritiene che la scuola è uno dei più importanti fattori di cambiamento sociale.
Il modo in cui viene trattata la dispersione scolastica è emblematico di uno slittamento del significato dei fenomeni veramente esemplare. In origine c’era la cosiddetta mortalità scolastica e il dovere dell’istruzione punito — in modo peraltro risibile — a norma di legge, ed una vasta letteratura che descriveva il fenomeno come frutto della miseria e dell’assenza di risorse; e già in questo modo piuttosto che esaltare la volontà di riscatto da parte dei poveri se ne avallavano le tendenze depressive alla passività clientelare e all’attesa messianica di una salvezza di seconda mano. L’atteggiamento pietoso o rivendicativo ha ceduto rapidamente il posto al determinismo sociale ossia all’idea che i “condizionamenti sociali” impedissero alla scuola di essere efficace: «Tu non sai cosa hanno alle spalle».
L’idea che la scuola complessivamente dovesse promuovere il cambiamento sociale e che i dispersi rappresentavano solo la punta dell’iceberg dell’impegno sociale della scuola, è stata sostituita dall’idea «nessuno deve rimanere indietro», «bisogna operare discriminazioni positive» per compensare lo svantaggio. E tutte queste cose piuttosto che negare lo spirito competitivo che stava intossicando la scuola lo confermavano rivendicando un qualche sostegno per potersi allineare egualitariamente sui blocchi di partenza di una corsa senza traguardo.
Questo è stato l’inizio di un processo di sfaldamento e di balcanizzazione in cui è diventato prioritario l’istituire aree protette, piuttosto che sostenere le capacità trasformative generali, reclamare protezione ope legis piuttosto che promuovere solidarietà umana come base irrinunciabile dell’alleanza educativa, perdersi nei meandri di innumerevoli forme di prepotenze e discriminazioni piuttosto che imparare ad ascoltare, a prevenire e ridurre i conflitti.
E non è finita. Persino la pandemia è occasione per ribadire le spaccature, le divisioni, rivendicare un angolo un po’ più fresco mentre la casa brucia, fare rivendicazioni a tanto il chilo piuttosto che promuovere un cambiamento qualitativo del paradigma educativo.
Bisogna cambiare il linguaggio, i concetti che attraverso esso si esprimono, le realtà fattuali significanti di quei concetti.
Siamo qui a parlare di sconfinamenti. In realtà il fatto stesso di dover dire che occorre sconfinare la dice lunga sull’educazione: educare per definizione significa uscire fuori dalle cornici esistenti. Se è necessario un movimento per dire questo significa che siamo messi male.
E vorrei dire che non è un buona idea pensare che il terzo settore aiuti la scuola ad aprirsi, e a sconfinare. Il terzo settore il più delle volte si muove negli stessi limiti e negli stessi steccati della cultura dominante, il più delle volte cerca di tappare le falle più vistose. Ma se un ruolo deve avere il terzo settore ed io oggi mi sento di rappresentare questo punto di vista, è quello di promuovere le trasformazioni educative, farsi agente di sviluppo di un territorio che può diventare comunità se sa unirsi intorno ai propri figli, se riesce a ricordare che lo scopo della società è di offrire ai propri figli un futuro. Non necessariamente migliore, ma un futuro.
Il modo in cui viene trattata la «dispersione» è emblematico