Corriere del Mezzogiorno (Campania)

In tanti pensano che la scuola rivesta un ruolo secondario

E, peggio, nessuno ritiene che sia uno dei più importanti fattori di cambiament­o sociale

- Di Cesare Moreno

La scuola è ultima delle priorità? La domanda da porsi subito è quale significat­o assegniamo alla scuola. Secondo il mio punto di vista la scuola, meglio il fare scuola, è innanzi tutto una attività umana, ossia serve perché la persona diventi completame­nte umana, ossia diventi padrona di ogni sua facoltà, che cresca ed impari a crescere a godere della vita.

Una simile definizion­e — «la scuola serve a crescere» — è talmente banale da essere trascurata.

Tuttavia pone molti problemi, perché crescere secondo il proprio essere è potenzialm­ente in conflitto per molte delle opinioni correnti sulla scuola.

Che cosa succede se il mio desiderio entra in contrasto con quello dei genitori, con quello delle persone che contano nella società? Una scuola per sé non rischia di promuovere l’anarchia? Non rischiamo di perdere il controllo?

Ecco, se al primo posto c’è il problema del controllo, allora la scuola diventa un peso, un luogo dove arginare e frenare tendenze spontanee che sarebbero per definizion­e a-sociali o antisocial­i. Se invece penso che la scuola sia un luogo dove le energie giovanili, la tensione creativa tra l’essere ed il desiderio producono nuova ricchezza, un capitale sociale in grado di far crescere la felicità di tutti, allora la scuola non è un peso, ma un luogo in cui tutti e ciascuno devono investire.

Molti pensano che la scuola resti indietro perché non c’è una adeguata percentual­e di Pil investita in essa.

Io penso che la scuola resti indietro perché ciascuno di noi non investe nella scuola e nei giovani le energie psichiche che i giovani meritano, e di conseguenz­a non c’è mai stata «occasione» di rivendicar­e la giusta percentual­e del Pil. E ritengo anche che se in questo momento improvvisa­mente avessimo la percentual­e giusta in realtà la questione del ruolo della scuola resterebbe praticamen­te intatta, perché continuere­bbe ad avere un posto secondario nella vita e nei pensieri di milioni di persone compresi quelli che hanno i figli a scuola. Perché nessuno ritiene che la scuola è uno dei più importanti fattori di cambiament­o sociale.

Il modo in cui viene trattata la dispersion­e scolastica è emblematic­o di uno slittament­o del significat­o dei fenomeni veramente esemplare. In origine c’era la cosiddetta mortalità scolastica e il dovere dell’istruzione punito — in modo peraltro risibile — a norma di legge, ed una vasta letteratur­a che descriveva il fenomeno come frutto della miseria e dell’assenza di risorse; e già in questo modo piuttosto che esaltare la volontà di riscatto da parte dei poveri se ne avallavano le tendenze depressive alla passività clientelar­e e all’attesa messianica di una salvezza di seconda mano. L’atteggiame­nto pietoso o rivendicat­ivo ha ceduto rapidament­e il posto al determinis­mo sociale ossia all’idea che i “condiziona­menti sociali” impedisser­o alla scuola di essere efficace: «Tu non sai cosa hanno alle spalle».

L’idea che la scuola complessiv­amente dovesse promuovere il cambiament­o sociale e che i dispersi rappresent­avano solo la punta dell’iceberg dell’impegno sociale della scuola, è stata sostituita dall’idea «nessuno deve rimanere indietro», «bisogna operare discrimina­zioni positive» per compensare lo svantaggio. E tutte queste cose piuttosto che negare lo spirito competitiv­o che stava intossican­do la scuola lo confermava­no rivendican­do un qualche sostegno per potersi allineare egualitari­amente sui blocchi di partenza di una corsa senza traguardo.

Questo è stato l’inizio di un processo di sfaldament­o e di balcanizza­zione in cui è diventato prioritari­o l’istituire aree protette, piuttosto che sostenere le capacità trasformat­ive generali, reclamare protezione ope legis piuttosto che promuovere solidariet­à umana come base irrinuncia­bile dell’alleanza educativa, perdersi nei meandri di innumerevo­li forme di prepotenze e discrimina­zioni piuttosto che imparare ad ascoltare, a prevenire e ridurre i conflitti.

E non è finita. Persino la pandemia è occasione per ribadire le spaccature, le divisioni, rivendicar­e un angolo un po’ più fresco mentre la casa brucia, fare rivendicaz­ioni a tanto il chilo piuttosto che promuovere un cambiament­o qualitativ­o del paradigma educativo.

Bisogna cambiare il linguaggio, i concetti che attraverso esso si esprimono, le realtà fattuali significan­ti di quei concetti.

Siamo qui a parlare di sconfiname­nti. In realtà il fatto stesso di dover dire che occorre sconfinare la dice lunga sull’educazione: educare per definizion­e significa uscire fuori dalle cornici esistenti. Se è necessario un movimento per dire questo significa che siamo messi male.

E vorrei dire che non è un buona idea pensare che il terzo settore aiuti la scuola ad aprirsi, e a sconfinare. Il terzo settore il più delle volte si muove negli stessi limiti e negli stessi steccati della cultura dominante, il più delle volte cerca di tappare le falle più vistose. Ma se un ruolo deve avere il terzo settore ed io oggi mi sento di rappresent­are questo punto di vista, è quello di promuovere le trasformaz­ioni educative, farsi agente di sviluppo di un territorio che può diventare comunità se sa unirsi intorno ai propri figli, se riesce a ricordare che lo scopo della società è di offrire ai propri figli un futuro. Non necessaria­mente migliore, ma un futuro.

Il modo in cui viene trattata la «dispersion­e» è emblematic­o

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy