Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Scuola, è il momento della rivoluzione
La coscienza pedagogica dell’insegnamento inizia a riconoscere in certe esperienze sul territorio forti sollecitazioni anche per tutta l’istituzione
Il bisogno di futuro delle giovani generazioni non può esaurirsi nell’offrire loro le generiche opportunità di sempre. Soprattutto ora. Le opportunità hanno senso, però, solo se sono riconosciute come tali dagli stessi ragazzi. Per ciò, l’innesco tra ciò che ogni ragazzo «conosce in anticipo» e ciò che gli viene offerto dalle condizioni al contorno è essenziale per diventare davvero il suo «progetto di vita». Diceva Marie Caterine Bateson, che «la vita si compone» grazie a figure «significative» che fanno da sponda a ciò che ognuno pensa di non saper fare o di poter fare. E in questo sono cruciali gli insegnanti e gli educatori che incontriamo.
Molto più spesso di quanto non crediamo, invece, i ragazzi vengono travolti dal vortice dei loro ineluttabili destini. Nella nostra scuola emerge una difficoltà, direi strutturale, a disinnescare questa trappola. Dice Giovanni: «Vorrei essere diverso e saper fare ciò in cui non riesco molto bene, …. vorrei suonare, ma credo che a casa e a scuola non sarebbero proprio contenti, anzi a scuola non parlo proprio di musica per non essere preso per uno che non studia…».
Per un pedagogista la chiave di lettura è nell’individuare precocemente il «potenziale»che ogni studente potrebbe esprimere se fosse posto nelle condizioni opportune (Vigotskij) e nel costruire progetti educativi dove esista congruità tra il profilo personale (Gardner) e i percorsi scolastici.
La ragione del fallimento di molte storie di formazione deriva proprio dalla permanenza di «atteggiamenti mentali» rigidi e standardizzati che non riescono ad entusiasmare i ragazzi. Il compito dell’educatore è di ridurre le distanze, quindi, ed accompagnarli nei momenti cruciali della crescita, prima che questi «restringano i propri orizzonti di vita, …, si chiudano entro una sfera determinata di affetti, interessi, conoscenze» dice Gianni Vattimo, lasciando sul percorso demotivazione, rabbia e frustrazione irrimediabili. Ma è riduttivo «orientare a» un tipo di scuola, un lavoro, una scelta universitaria. Il focus che ci interessa è guidare ad «orientare se stessi» nella moltitudine delle sollecitazioni complesse e disorientanti, appunto.
Sono convinta che sia il caso di innervare la prassi consolidata dell’insegnamento scolastico con lo spirito dei progetti educativi visionari che operano sul territorio. D’altronde, il disagio che stiamo vivendo ha messo ancora di più a nudo le falle della scuola italiana. La tendenza a restare uguale a se stessa conferma un’idea di scuola «indiscutibile» e convenzionale, mentre sarebbe il caso di «pensarne» una «sporcata» dalla realtà dei fatti e capace di «negoziare con loro» (Morin).
È proprio nelle esperienze extrascolastiche che troviamo forti indicazioni per ragionare. Nei loro progetti site-specific che sanno includere e difendere i più deboli. Questi si concentrano sui ragazzi, sulla relazione personale, sul carisma dell’educatore e la sua capacità di fascinazione. Il fulcro è nel costruire un contagio sociale non strutturato sull’obbligatorietà, ma sulla fiducia. Esperienze che educano ad «uno stare al mondo», che creano comunità «del fare» ricavando i loro magici ingredienti — come il teatro, le arti espressive, la musica, l’artigianato, le tecnologie e la storia — dal genius loci recuperato alla contemporaneità.
È l’utopia la vera ricchezza delle esperienze che vivono sul territorio. D’altronde se Don Milani non avesse rivoluzionato i principi guida della scuola tradizionale, usando la «didattica dell’episodio» e la cultura come prerequisito della dignità, non avrebbe inciso sui progetti di vita dei suoi ragazzi e li avrebbe destinati alla marginalità. Una utopia insieme «autoritaria e liberatoria» che avrebbe cambiato la scuola stessa. Purtroppo, la circolarità ricorsiva tra utopia e istituzione scolastica mi appare ormai sparita da tempo, a tutto vantaggio di un sistema che tende sempre più ad escludere, al di là delle stesse intenzioni dichiarate.
Lo sguardo col quale gli educatori si relazionano ai loro ragazzi è molto diverso, infatti, da quello dell’insegnante. L’operare quotidiano con i linguaggi «del fare» scompagina molte impostazioni didattiche tradizionali, perché vuole illuminare individualità e aprire mondi che la scuola italiana ha pericolosamente circoscritto.
È una questione di coraggio che anima da moltissimi anni i «Maestri di strada» nel contrastare il disagio e la dispersione scolastica e la scuola della Fondazione Rione Sanità che continua ad resistere con i suoi ragazzi e le loro famiglie. Penso ai laboratori teatrali di Manovalanza, concentrati sul rigore della preparazione dei migranti dello Sprar di Procida e dei ragazzi di Scampia; ai laboratori di costruzione teatrale di Trasformazione Animata; all’incontro con l’ arte contemporanea dei ragazzini–stupiti - che sono entrati nella Madrefactory aperta anche durante l’estate. Penso alle azioni puntuali di contrasto alla «povertà educativa» e agli interventi necessari per la didattica digitale che Save the Children dissemina in più luoghi grazie al coinvolgimento delle risorse educative radicate sul territorio ed al progetto Erasmus plus il cui nome profetico «Gem - Gypsy E-college of Music» è gemmato da Scampia. Un progetto che usa la musica e le tecnologie digitali per sostenere ragazzi Rom in Europa,
Ho qui citato solo gli interventi presenti nella mia memoria di servizio, ovviamente. La presenza del No-profit è fittissima ed offre un sistema diffuso di ancoraggio, costituendo una vera e propria diga alle tante forme di marginalità. Molte volte anche sostituendosi alla scuola. Se dei limiti si possono cogliere in alcune di queste esperienze è nell’essere pulviscolari, spesso incapaci di fare rete, misconosciute dalle istituzioni, sempre in affanno per la difficoltà di accedere a fondi ed a partners istituzionali, disomogenee sul territorio e difficili da valutare. Ma questo è un discorso molto complesso.
Tuttavia vorrei che fossimo di fronte ad una conversione ponderata, che di recente inizia a serpeggiare anche nel senso comune e nella coscienza pedagogica dell’insegnamento, pronta a riconoscere in queste esperienze forti sollecitazioni anche per la stessa scuola. Come dice Grazia, «noi studenti abbiamo aspettative diverse verso la scuola che…. spesso non ci coinvolge e non cerca la nostra partecipazione. Da ciò nasce un senso di passività e noia che determina una sorta di costrizione dell’apprendimento».
Questo particolarissimo e incerto momento ha proprio le caratteristiche per rivoluzionare l’idea di scuola. Comunque, sta già producendo piccoli segnali di adattamento creativo come l’uso consapevole che molti insegnanti hanno inventato accedendo ai nuovi linguaggi digitali ed, addirittura, come i nuovi programmi Rai messi a disposizione della scuola che hanno, però, il sapore «del buon tempo antico».
Restiamo in attesa di grandi pensatori.
Questo particolare e incerto momento ha proprio le caratteristiche per facilitare trasformazioni
Emergono piccoli segnali di adattamento creativo nell’uso dei nuovi linguaggi digitali