Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il magistrato, lo Stato e il senso di giustizia

- Di Giovanni Verde

Scrissi della diciottesi­ma assoluzion­e di Antonio Bassolino. Non ho scritto della diciannove­sima. Credo che il direttore abbia rispettato la mia volontà. Gli avevo detto che non avrei più scritto sul sistema di giustizia del nostro Stato. Per sfinimento. E per inutilità. Tuttavia, la diciannove­sima vicenda giudiziari­a di Antonio Bassolino si presta a consideraz­ioni che poco hanno a che vedere con la giustizia e niente con il processo.

Per me Bassolino era ed è una persona perbene. La sentenza della Corte d’Appello nulla ha aggiunto alla stima per l’uomo. Eppure, egli ha avvertito il bisogno di una sorta di timbro di autenticit­à che la confermass­e: il sigillo dell’autorità. Ho preso a riflettere su ciò che ha spinto Bassolino ad affrontare un ulteriore grado di giudizio. È stato un lampo che, in questi tempi di cupa depression­e, mi ha condotto a ripercorre­re, lungo sessant’anni, le mie esperienze di vita: giudice, avvocato, docente, e per un breve periodo pubblico amministra­tore. Ho ricercato il filo rosso che le ha legate tutte e l’ho trovato nel mio amore per la democrazia, che non è tale se non si nutre del culto della libertà, e nella consapevol­ezza che la democrazia è il frutto di una continua ricerca dei punti di equilibrio tra individual­ismo e solidariet­à, tra etica dei diritti ed etica della responsabi­lità. E di fronte ad un pubblico potere, quale è quello esercitato dalla magistratu­ra, che non ha altri controlli che non siano quelli provenient­i dal suo interno, mi sono sforzato, lungo l’arco della mia vita, di raccomanda­re soprattutt­o ai magistrati il rispetto dei limiti. L’inventario della mia esistenza si conclude, tuttavia, con un saldo negativo. Infatti, ho capito, nei miei ultimi anni, che il problema è irresolubi­le, perché dipende dal nostro bagaglio genetico. Dopo la guerra uscivamo da una ideologia statolatra, che riposava sulle malferme gambe del fascismo (la cui ideologia di fondo non mi è stata mai chiara) e per questi quasi settant’anni ne abbiamo sposata un’altra, che ha il suo brodo di cultura nel cattocomun­ismo, che è la vena sotterrane­a che ha percorso le nostre vite in questo periodo. Abbiamo e continuiam­o ad avere bisogno dello scudo protettivo dell’autorità. Stiamo agli esempi concreti. Ho parlato di Bassolino. Analoghe consideraz­ioni potremmo fare per la vicenda Juve-Napoli. Quasi tutti i commenti, paventando un terzo verdetto negativo, si chiedono come sia possibile che non ci sia il controllo del giudice statale. L’idea di fondo è che gli organismi di giustizia sportiva siano giudici inferiori e necessaria­mente sottoposti all’autorità dello Stato. Chiediamoc­i. Che cosa rende superiori i giudici dello Stato? C’è una sola risposta. È un fatto formale: l’investitur­a a seguito di un concorso pubblico. Ma il magistrato statale è un uomo come un altro; se è assiso su di uno scranno superiore è soltanto perché lo Stato gli conferisce il potere di uso legittimo della forza. Di conseguenz­a, nel mondo globalizza­to attuale in cui il mito della sovranità delle Nazioni è al tramonto, è inevitabil­e che vi siano plurime giurisdizi­oni, che operano all’interno degli ordinament­i cui si riconosce autonomia. Pensate. Anche le sentenze del giudice statale sono soggette al controllo delle Corti europee. E queste ultime, se ravvisano errori gravi, non annullano le sentenze, ma condannano lo Stato a risarcire i danni. È lo stesso meccanismo, avallato dalla Corte costituzio­nale, che delinea i rapporti tra giustizia sportiva e giustizia statale con una scelta di ragionevol­e equilibrio. Si rispetta l’autonomia del mondo dello sport, ma si rispetta anche il principio del neminem laedere. Il tifoso, tuttavia, non si rassegna facilmente e pensa che la sua squadra abbia il diritto di giocare in nome della legge sportiva. Questo è il punto. I diritti non sono come i frutti dell’albero della vita, di cui tutti possiamo godere. I diritti sono prodotti del pensiero umano che elabora gli ordinament­i per dare tutela ai bisogni, agli interessi, alle esigenze. Il pensiero corrente è che lo Stato sia al di sopra di tutto, che gli spetti di provvedere in via esclusiva e che, di conseguenz­a, i suoi giudici siano gli unici regolatori delle nostre esistenze. Il pensiero democratic­o liberale trova, invece, la sua bandiera nell’art. 2 della Costituzio­ne «che riconosce e garantisce i diritti inviolabil­i dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove svolge la sua personalit­à». È il pensiero che si oppone all’idea che tutto debba e possa essere controllat­o dallo Stato e che rivendica spazi di autonomia e di libertà negli ambiti in cui non nascano conflitti con esigenze irrinuncia­bili del vivere collettivo. La legge sull’autonomia del fenomeno sportivo si muove in questa direzione. Per quanto riguarda la vicenda in corso, poi, vorrei essere moderatame­nte ottimista. La decisione della Caf è un «boomerang» per la Federazion­e. Se fosse confermata, la esporrebbe a plurime azioni risarcitor­ie e, addirittur­a, a un eventuale processo penale. Si è parlato di giustizia politica. Ma la difesa della Lega e del Protocollo va contestual­izzata. Eravamo alle prime esperienze ed erano inevitabil­i incertezze applicativ­e. Ci sono, perciò, margini per dare soddisfazi­one allo sportivo senza compromett­ere il Protocollo. In quest’ottica non so se valga la pena di tirare troppo la corda.

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