Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il magistrato, lo Stato e il senso di giustizia
Scrissi della diciottesima assoluzione di Antonio Bassolino. Non ho scritto della diciannovesima. Credo che il direttore abbia rispettato la mia volontà. Gli avevo detto che non avrei più scritto sul sistema di giustizia del nostro Stato. Per sfinimento. E per inutilità. Tuttavia, la diciannovesima vicenda giudiziaria di Antonio Bassolino si presta a considerazioni che poco hanno a che vedere con la giustizia e niente con il processo.
Per me Bassolino era ed è una persona perbene. La sentenza della Corte d’Appello nulla ha aggiunto alla stima per l’uomo. Eppure, egli ha avvertito il bisogno di una sorta di timbro di autenticità che la confermasse: il sigillo dell’autorità. Ho preso a riflettere su ciò che ha spinto Bassolino ad affrontare un ulteriore grado di giudizio. È stato un lampo che, in questi tempi di cupa depressione, mi ha condotto a ripercorrere, lungo sessant’anni, le mie esperienze di vita: giudice, avvocato, docente, e per un breve periodo pubblico amministratore. Ho ricercato il filo rosso che le ha legate tutte e l’ho trovato nel mio amore per la democrazia, che non è tale se non si nutre del culto della libertà, e nella consapevolezza che la democrazia è il frutto di una continua ricerca dei punti di equilibrio tra individualismo e solidarietà, tra etica dei diritti ed etica della responsabilità. E di fronte ad un pubblico potere, quale è quello esercitato dalla magistratura, che non ha altri controlli che non siano quelli provenienti dal suo interno, mi sono sforzato, lungo l’arco della mia vita, di raccomandare soprattutto ai magistrati il rispetto dei limiti. L’inventario della mia esistenza si conclude, tuttavia, con un saldo negativo. Infatti, ho capito, nei miei ultimi anni, che il problema è irresolubile, perché dipende dal nostro bagaglio genetico. Dopo la guerra uscivamo da una ideologia statolatra, che riposava sulle malferme gambe del fascismo (la cui ideologia di fondo non mi è stata mai chiara) e per questi quasi settant’anni ne abbiamo sposata un’altra, che ha il suo brodo di cultura nel cattocomunismo, che è la vena sotterranea che ha percorso le nostre vite in questo periodo. Abbiamo e continuiamo ad avere bisogno dello scudo protettivo dell’autorità. Stiamo agli esempi concreti. Ho parlato di Bassolino. Analoghe considerazioni potremmo fare per la vicenda Juve-Napoli. Quasi tutti i commenti, paventando un terzo verdetto negativo, si chiedono come sia possibile che non ci sia il controllo del giudice statale. L’idea di fondo è che gli organismi di giustizia sportiva siano giudici inferiori e necessariamente sottoposti all’autorità dello Stato. Chiediamoci. Che cosa rende superiori i giudici dello Stato? C’è una sola risposta. È un fatto formale: l’investitura a seguito di un concorso pubblico. Ma il magistrato statale è un uomo come un altro; se è assiso su di uno scranno superiore è soltanto perché lo Stato gli conferisce il potere di uso legittimo della forza. Di conseguenza, nel mondo globalizzato attuale in cui il mito della sovranità delle Nazioni è al tramonto, è inevitabile che vi siano plurime giurisdizioni, che operano all’interno degli ordinamenti cui si riconosce autonomia. Pensate. Anche le sentenze del giudice statale sono soggette al controllo delle Corti europee. E queste ultime, se ravvisano errori gravi, non annullano le sentenze, ma condannano lo Stato a risarcire i danni. È lo stesso meccanismo, avallato dalla Corte costituzionale, che delinea i rapporti tra giustizia sportiva e giustizia statale con una scelta di ragionevole equilibrio. Si rispetta l’autonomia del mondo dello sport, ma si rispetta anche il principio del neminem laedere. Il tifoso, tuttavia, non si rassegna facilmente e pensa che la sua squadra abbia il diritto di giocare in nome della legge sportiva. Questo è il punto. I diritti non sono come i frutti dell’albero della vita, di cui tutti possiamo godere. I diritti sono prodotti del pensiero umano che elabora gli ordinamenti per dare tutela ai bisogni, agli interessi, alle esigenze. Il pensiero corrente è che lo Stato sia al di sopra di tutto, che gli spetti di provvedere in via esclusiva e che, di conseguenza, i suoi giudici siano gli unici regolatori delle nostre esistenze. Il pensiero democratico liberale trova, invece, la sua bandiera nell’art. 2 della Costituzione «che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove svolge la sua personalità». È il pensiero che si oppone all’idea che tutto debba e possa essere controllato dallo Stato e che rivendica spazi di autonomia e di libertà negli ambiti in cui non nascano conflitti con esigenze irrinunciabili del vivere collettivo. La legge sull’autonomia del fenomeno sportivo si muove in questa direzione. Per quanto riguarda la vicenda in corso, poi, vorrei essere moderatamente ottimista. La decisione della Caf è un «boomerang» per la Federazione. Se fosse confermata, la esporrebbe a plurime azioni risarcitorie e, addirittura, a un eventuale processo penale. Si è parlato di giustizia politica. Ma la difesa della Lega e del Protocollo va contestualizzata. Eravamo alle prime esperienze ed erano inevitabili incertezze applicative. Ci sono, perciò, margini per dare soddisfazione allo sportivo senza compromettere il Protocollo. In quest’ottica non so se valga la pena di tirare troppo la corda.