Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Quarant’anni dopo quel terremoto che non è mai finito
Una «autobiografia del terremoto» lunga 228 pagine, imponente per quantità di dati e rievocazione storica, è quella scritta da Generoso Picone (Paesaggio con rovine: Irpinia un terremoto infinito, Mondadori, euro 18), in questo 40° anniversario che cade durante un’altra sciagura le cui conseguenze rischiano di diventare anch’esse infinite.
Picone, irpino, giornalista del «Mattino» che ha vissuto in prima persona la tragedia del 23 novembre 1980, fa il bilancio d’una cocente delusione, documentando anche l’orribile somiglianza con il presente perfino nei linguaggi delle promesse, dei solenni impegni politici. Mentre si continua ad ignorare le prescrizioni della scienza, la prevenzione antisismica viene ignorata e dimenticata dopo ogni tragedia, così come accade in tema di sanità. L’autore ci porta all’epicentro del sisma (2.914 morti, 8.848 feriti, 280mila sfollati, 77.340 case distrutte e 275.260 danneggiate), Sella di Conza, luogo adatto «per riafferrare l’aura di responsabilità etica che macerie e rovine dovrebbero possedere e occorrerebbe rispettare sempre». Cultura del ricordo e consapevolezza del rischio, sono grandi assenti nella società che preferisce dimenticare invece di cambiare. Con qualcosa di più che riguarda l’Irpinia e l’intero Mezzogiorno: dopo l’ondata di solidarietà, l’arrivo di volontari da tutto il mondo, la mobilitazione della cultura, del teatro, della scuola, dell’università, accade che l’immane tragedia è «derubricata» a scandalo, spreco di fondi pubblici, scontri politici, malefatte di imprenditori. Su questi due temi la documentazione fornita da Picone è vasta e accurata, mette in evidenza l’enorme quantità di elaborazioni, interventi, studi, proposte, indagini, convegni e indicazioni preziose che fecero pensare ad una svolta vicina, ad un Paese consapevole delle potenzialità meridionali, in grado di «costruire» (non «ricostruire») cancellando i segni dell’antica miseria. E invece, l’Irpinia e il Sud diventano teatro di sprechi, scandali, collusioni fra politica e malavita, diventano regioni del malaffare, anche se appare chiaro che i meccanismi legislativi e soprattutto burocratici favoriscono industrie del Nord, e il ben pagato lassismo delle autorità locali propizia le imprese della camorra. Non mancano buoni esempi (che però fanno aumentare rabbia e rimpianto) come il salvataggio dei centri storici dovuto al caparbio soprintendente Mario De Cunzo, la ricostruzione «partecipata» di Sant’Angelo dei Lombardi, le industrie altamente produttive che funzionano mentre la Fiat-Iveco-IrisBus di Grottaminarda chiude rovinosamente. Lunga la rassegna (dal sequestro Cirillo alla faida di Quindici, alla vicenda dell’Isochimica di Elio Graziano con 33 morti ed enormi quantità di amianto nascosto nel sottosuolo) che mette in luce ben tollerate collusioni fra amministratori pubblici e camorra. Due narrazioni concludono il libro. Ad Avellino Franco Freda, irpino, colpevole non più perseguibile della strage fascista di piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969), gestisce «Edizioni Ar» (ariane…?) attive contro l’Islam e le «invasioni» che minacciano la razza bianca, erede quindi dell’avellinese Giovanni Preziosi prete amico di Mussolini, traduttore del falso antisemita Protocolli dei savi di Sion e ispiratore delle leggi razziali del 1938.
A suscitare speranza adesso è l’iniziativa di una decina di vescovi e prelati irpini che firmano un documento (portato al Capo dello Stato) invocante azioni concrete contro lo spopolamento. Uno sprazzo di luce nel perdurante vuoto della politica.