Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Dal «Nennillo beat» a Chille de la Balanza
Il valore e il significato di «Napule ‘70», il libro di Matteo Brighenti e Claudio Ascoli appena uscito per i tipi di Pacini, vanno ben oltre la pur preziosa rievocazione dei quarantasette anni di attività di «Chille de la Balanza», la storica compagnia underground che Ascoli fondò nel 1973 e ha poi ininterrottamente gestito avendo al fianco Sissi Abbondanza. Perché quella rievocazione - innescata dallo spettacolo, appunto «Napule ‘70», che «Chille de la Balanza» ha presentato nel corso dell’ultimo Napoli Teatro Festival Italia - rimanda all’atmosfera complessiva in cui la ricerca teatrale si sviluppò durante l’irripetibile stagione compresa tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta: un’atmosfera che, per dirla in estrema sintesi, nasceva dalla fusione irrinunciabile del teatro e della vita.
Io ne sono un buon testimone. Allora vivevo a Castellammare. E m’incuriosì quel ragazzo con gli occhi rotondi, un po’ sporgenti, e i capelli tagliati quasi a zero. Portava sempre con sé due o tre libri, e camminava leggendo. Leggeva anche al cinema, prima che cominciasse il film e durante l’intervallo fra il primo e il secondo tempo. E riprendeva a leggere all’uscita.
D’inverno indossava spesso una mantellina, abbigliamento piuttosto insolito per una città di provincia. E pure questo – naturalmente – attirava l’attenzione. Ma non sapevo chi fosse, quel ragazzo con gli occhi rotondi, un po’ sporgenti, e i capelli tagliati quasi a zero. Sicché lo avvicinai. Si chiamava Giancarlo Palermo. E provai non poca sorpresa quando, alcuni anni più tardi, lui cominciò a fare l’attore: non avrei mai immaginato che un tipo così schivo e solitario potesse fare un mestiere tagliato, pensavo allora, per gente tosta, sfrontata e compagnona. Ma fu lo stesso Giancarlo a rivelarmi che, al contrario, proprio le persone schive e solitarie risultano spesso i migliori attori: un attore, mi spiegò, è fondamentalmente un immaturo, ossia è psicologicamente e caratterialmente fragile; e di conseguenza, con maggior facilità riesce a spogliarsi di sé e a calarsi nei panni (cioè, per l’appunto, nella psicologia e nel carattere) dei personaggi da interpretare. In altri termini, proprio quella sua fragilità gli consente d’essere ciò che soprattutto un attore dev’essere: un medium, un tramite il più possibile neutro fra il testo e il palcoscenico.
Insomma, fu specialmente per l’amicizia con Giancarlo Palermo che la sera del 26 dicembre 1966 capitai nel cortile dello stabile al numero 18 di via Martucci. Giancarlo era entrato a far parte di un gruppo che si chiamava Teatro Esse e che quella sera inaugurava la propria omonima sede con la messinscena, una novità assoluta per l’Italia, de «La magia della farfalla» di García Lorca. Io non andavo a teatro, m’interessavo di letteratura. Ma siccome avevo cominciato a muovere i primi passi nel giornalismo presso la redazione napoletana de «Il Tempo» e avevo chiesto che, accanto alla cronaca «bianca» di cui m’occupavo di solito, mi facessero occupare anche di qualcosa attinente alla cultura, ecco che, del tutto inopinatamente, mi ritrovai nei panni di critico teatrale.
Ero, allora, molto timido. Sicché, dopo una fugace discesa nello scantinato in cui aveva sede il neonato Teatro Esse, subito – imbarazzatissimo perché non conoscevo nessuno – me ne tornai su, mettendomi a passeggiare avanti e indietro nel cortile in attesa che cominciasse lo spettacolo. Ed ecco che mi si avvicinò un altro sconosciuto, che si presentò come Mico Galdieri, disse di essere il produttore di quello spettacolo e aggiunse: «Tu non hai capito che qui, stasera, sei la persona più importante: qui, stasera, sta per nascere qualcosa di molto significativo, e senza la testimonianza che ne darai sarebbe come se non fosse nato niente». Infatti, ero l’unico giornalista presente. Ma, in quanto critico teatrale, almeno nella circostanza del mio esordio provocai danni limitati: scrissi, per «La magia della farfalla», una recensione di appena una trentina di righe, firmandola, secondo l’usanza dell’epoca, solamente «Vice».
In seguito, Giancarlo Palermo ebbe occasioni importanti: l’anno dopo fu un Nennillo beat, con il poster di Nembo Kid attaccato sopra il letto, nell’unico tentativo di attualizzazione di una sua commedia mai compiuto da Eduardo; ed entrò, poi, nella mitica Compagnia dei Quattro di Franco Enriquez, Valeria Moriconi, Mario Scaccia e Glauco Mauri, con la paga, in quei tempi favolosa e assolutamente rara, di seicentomila lire al mese. Ma sempre fuggì via, Giancarlo. Perché col teatro «ufficiale» proprio non riusciva a legare. E non a caso, del resto, coltivò forti affinità elettive con Renato Carpentieri, un altro che ha sistematicamente rifiutato la carriera «accademica».
In breve, ci fu un terreno di coltura siffatto dietro la nascita di «Chille de la Balanza». E ad esso corrispose, come ho già scritto in queste pagine, persino il nome del luogo in cui la compagnia di Ascoli operò. Infatti, quella che fu sua vera e propria trincea fu un locale di Port’Alba che si chiamava «Teatro, Comunque.», a dire, insieme, della voglia incoercibile di far teatro e della necessità imprescindibile di farlo ad ogni costo, al di là delle angustie economiche e delle pastoie burocratiche. E nei programmi e negli spettacoli di «Chille de la Balanza» echeggiarono, e ancora non a caso, le stesse convinzioni che anni prima avevo riscontrato nei programmi e negli spettacoli dei giovani del Teatro Esse: centrate su rilievi che toccavano mali antichi e nuovi di Napoli, si riassumevano nell’affermare il dovere di allargare l’analisi oltre il puro fatto teatrale, per arrivare a indagini che investissero anche la politica e il costume.
Poi, a sua volta «Chille de la Balanza» dovette fuggire. Nel 1985 se ne andò da Napoli e si trasferì in Toscana. Ma, s’intende, senza abbandonare la tensione verso l’avventura in dimensioni «altre»: visto che nel 1998 s’insediò a San Salvi, l’ex città-manicomio di Firenze, sostituendo all’«esteriorità» giocosa del Pulcinella tramandato da una tradizione napoletana malintesa l’«interiorità» dolorosissima dei senzanome seppelliti nel carcere di comodo della cosiddetta «malattia mentale». «Chille de la Balanza», come ho detto nel libro di Brighenti e Ascoli citando Émile Verhaeren, scelse di andare «verso la follia» e «i suoi soli». In ciò ripercorrendo il cammino e reincarnando l’ossimoro del gran comico dell’Arte Tiberio Fiorilli, che se ne andò da Napoli e a Parigi, col nome di Scaramouche, divenne celebre e fu maestro di Molière. Era capace di suscitare, immancabilmente, irrefrenabili esplosioni di risate, ma recitava, altrettanto immancabilmente, con un costume nero come un cielo notturno senza stelle. Era capace, in altri termini, di mettere in scena, perennemente, la fantasmagorica e, ad un tempo, malinconica metafora della Vita «tout court».
Ora, per concludere, ci si può interrogare circa il senso di tutto questo. E possiamo trovare la risposta negli ultimi versi di «Itaca», una delle più belle e importanti poesie di Kavafis: «Tienila sempre in mente, Itaca. / La tua meta è approdare là. / Ma non far fretta al tuo viaggio. / Meglio che duri molti anni; / e che ormai vecchio attracchi all’isola, / ricco di ciò che guadagnasti per la via, / senza aspettarti da Itaca ricchezze. / Itaca ti ha donato il bel viaggio. / Non saresti partito senza lei. / Nulla di più ha da darti. / E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso. / Sei diventato così esperto e saggio, / e avrai capito che vuol dire Itaca».