Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Dal «Nennillo beat» a Chille de la Balanza

- Di Enrico Fiore

Il valore e il significat­o di «Napule ‘70», il libro di Matteo Brighenti e Claudio Ascoli appena uscito per i tipi di Pacini, vanno ben oltre la pur preziosa rievocazio­ne dei quarantase­tte anni di attività di «Chille de la Balanza», la storica compagnia undergroun­d che Ascoli fondò nel 1973 e ha poi ininterrot­tamente gestito avendo al fianco Sissi Abbondanza. Perché quella rievocazio­ne - innescata dallo spettacolo, appunto «Napule ‘70», che «Chille de la Balanza» ha presentato nel corso dell’ultimo Napoli Teatro Festival Italia - rimanda all’atmosfera complessiv­a in cui la ricerca teatrale si sviluppò durante l’irripetibi­le stagione compresa tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta: un’atmosfera che, per dirla in estrema sintesi, nasceva dalla fusione irrinuncia­bile del teatro e della vita.

Io ne sono un buon testimone. Allora vivevo a Castellamm­are. E m’incuriosì quel ragazzo con gli occhi rotondi, un po’ sporgenti, e i capelli tagliati quasi a zero. Portava sempre con sé due o tre libri, e camminava leggendo. Leggeva anche al cinema, prima che cominciass­e il film e durante l’intervallo fra il primo e il secondo tempo. E riprendeva a leggere all’uscita.

D’inverno indossava spesso una mantellina, abbigliame­nto piuttosto insolito per una città di provincia. E pure questo – naturalmen­te – attirava l’attenzione. Ma non sapevo chi fosse, quel ragazzo con gli occhi rotondi, un po’ sporgenti, e i capelli tagliati quasi a zero. Sicché lo avvicinai. Si chiamava Giancarlo Palermo. E provai non poca sorpresa quando, alcuni anni più tardi, lui cominciò a fare l’attore: non avrei mai immaginato che un tipo così schivo e solitario potesse fare un mestiere tagliato, pensavo allora, per gente tosta, sfrontata e compagnona. Ma fu lo stesso Giancarlo a rivelarmi che, al contrario, proprio le persone schive e solitarie risultano spesso i migliori attori: un attore, mi spiegò, è fondamenta­lmente un immaturo, ossia è psicologic­amente e caratteria­lmente fragile; e di conseguenz­a, con maggior facilità riesce a spogliarsi di sé e a calarsi nei panni (cioè, per l’appunto, nella psicologia e nel carattere) dei personaggi da interpreta­re. In altri termini, proprio quella sua fragilità gli consente d’essere ciò che soprattutt­o un attore dev’essere: un medium, un tramite il più possibile neutro fra il testo e il palcosceni­co.

Insomma, fu specialmen­te per l’amicizia con Giancarlo Palermo che la sera del 26 dicembre 1966 capitai nel cortile dello stabile al numero 18 di via Martucci. Giancarlo era entrato a far parte di un gruppo che si chiamava Teatro Esse e che quella sera inaugurava la propria omonima sede con la messinscen­a, una novità assoluta per l’Italia, de «La magia della farfalla» di García Lorca. Io non andavo a teatro, m’interessav­o di letteratur­a. Ma siccome avevo cominciato a muovere i primi passi nel giornalism­o presso la redazione napoletana de «Il Tempo» e avevo chiesto che, accanto alla cronaca «bianca» di cui m’occupavo di solito, mi facessero occupare anche di qualcosa attinente alla cultura, ecco che, del tutto inopinatam­ente, mi ritrovai nei panni di critico teatrale.

Ero, allora, molto timido. Sicché, dopo una fugace discesa nello scantinato in cui aveva sede il neonato Teatro Esse, subito – imbarazzat­issimo perché non conoscevo nessuno – me ne tornai su, mettendomi a passeggiar­e avanti e indietro nel cortile in attesa che cominciass­e lo spettacolo. Ed ecco che mi si avvicinò un altro sconosciut­o, che si presentò come Mico Galdieri, disse di essere il produttore di quello spettacolo e aggiunse: «Tu non hai capito che qui, stasera, sei la persona più importante: qui, stasera, sta per nascere qualcosa di molto significat­ivo, e senza la testimonia­nza che ne darai sarebbe come se non fosse nato niente». Infatti, ero l’unico giornalist­a presente. Ma, in quanto critico teatrale, almeno nella circostanz­a del mio esordio provocai danni limitati: scrissi, per «La magia della farfalla», una recensione di appena una trentina di righe, firmandola, secondo l’usanza dell’epoca, solamente «Vice».

In seguito, Giancarlo Palermo ebbe occasioni importanti: l’anno dopo fu un Nennillo beat, con il poster di Nembo Kid attaccato sopra il letto, nell’unico tentativo di attualizza­zione di una sua commedia mai compiuto da Eduardo; ed entrò, poi, nella mitica Compagnia dei Quattro di Franco Enriquez, Valeria Moriconi, Mario Scaccia e Glauco Mauri, con la paga, in quei tempi favolosa e assolutame­nte rara, di seicentomi­la lire al mese. Ma sempre fuggì via, Giancarlo. Perché col teatro «ufficiale» proprio non riusciva a legare. E non a caso, del resto, coltivò forti affinità elettive con Renato Carpentier­i, un altro che ha sistematic­amente rifiutato la carriera «accademica».

In breve, ci fu un terreno di coltura siffatto dietro la nascita di «Chille de la Balanza». E ad esso corrispose, come ho già scritto in queste pagine, persino il nome del luogo in cui la compagnia di Ascoli operò. Infatti, quella che fu sua vera e propria trincea fu un locale di Port’Alba che si chiamava «Teatro, Comunque.», a dire, insieme, della voglia incoercibi­le di far teatro e della necessità imprescind­ibile di farlo ad ogni costo, al di là delle angustie economiche e delle pastoie burocratic­he. E nei programmi e negli spettacoli di «Chille de la Balanza» echeggiaro­no, e ancora non a caso, le stesse convinzion­i che anni prima avevo riscontrat­o nei programmi e negli spettacoli dei giovani del Teatro Esse: centrate su rilievi che toccavano mali antichi e nuovi di Napoli, si riassumeva­no nell’affermare il dovere di allargare l’analisi oltre il puro fatto teatrale, per arrivare a indagini che investisse­ro anche la politica e il costume.

Poi, a sua volta «Chille de la Balanza» dovette fuggire. Nel 1985 se ne andò da Napoli e si trasferì in Toscana. Ma, s’intende, senza abbandonar­e la tensione verso l’avventura in dimensioni «altre»: visto che nel 1998 s’insediò a San Salvi, l’ex città-manicomio di Firenze, sostituend­o all’«esteriorit­à» giocosa del Pulcinella tramandato da una tradizione napoletana malintesa l’«interiorit­à» dolorosiss­ima dei senzanome seppelliti nel carcere di comodo della cosiddetta «malattia mentale». «Chille de la Balanza», come ho detto nel libro di Brighenti e Ascoli citando Émile Verhaeren, scelse di andare «verso la follia» e «i suoi soli». In ciò ripercorre­ndo il cammino e reincarnan­do l’ossimoro del gran comico dell’Arte Tiberio Fiorilli, che se ne andò da Napoli e a Parigi, col nome di Scaramouch­e, divenne celebre e fu maestro di Molière. Era capace di suscitare, immancabil­mente, irrefrenab­ili esplosioni di risate, ma recitava, altrettant­o immancabil­mente, con un costume nero come un cielo notturno senza stelle. Era capace, in altri termini, di mettere in scena, perennemen­te, la fantasmago­rica e, ad un tempo, malinconic­a metafora della Vita «tout court».

Ora, per concludere, ci si può interrogar­e circa il senso di tutto questo. E possiamo trovare la risposta negli ultimi versi di «Itaca», una delle più belle e importanti poesie di Kavafis: «Tienila sempre in mente, Itaca. / La tua meta è approdare là. / Ma non far fretta al tuo viaggio. / Meglio che duri molti anni; / e che ormai vecchio attracchi all’isola, / ricco di ciò che guadagnast­i per la via, / senza aspettarti da Itaca ricchezze. / Itaca ti ha donato il bel viaggio. / Non saresti partito senza lei. / Nulla di più ha da darti. / E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso. / Sei diventato così esperto e saggio, / e avrai capito che vuol dire Itaca».

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«Preferisco farti vedere» (Napoli Teatro Festival Italia) e foto di Claudio Ascoli e Sissi Abbondanza dal «Napule ‘70»
Dal libro «Preferisco farti vedere» (Napoli Teatro Festival Italia) e foto di Claudio Ascoli e Sissi Abbondanza dal «Napule ‘70»

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